Il genio impaziente: Giuseppe Verdi ed Ernani

by Enrico Ciccarelli

Giuseppe Verdi ha trent’anni quando pone in musica il libretto che Francesco Maria Piave ha tratto dall’Ernani, uno dei drammoni storici di Victor Hugo, irto di passioni sentimentali e patriottiche, affollato di martìri e sospiri, pervaso in ogni dove dal contrasto fra la brama e il dovere, fra il sentimento e l’onore. Il giovane compositore ha lasciato da qualche anno (1839) il suo lavoro di maestro di musica nella natia Busseto.

Le prime opere (Oberto, conte di San Bonifacio e Un giorno di regno) sono andate così così e la sua vita privata è stata di recente funestata da grandi tragedie, con la morte a un anno di età dei suoi figli Virginia e Icilio Romano, e poi della stessa moglie, l’amata Margherita Barezzi, figlia del suo mentore e mecenate. Nel 1842, però, il destino ha mutato i suoi decreti: il Nabucco, con il suo mirabile coro, ha spopolato, meritandosi alla Scala l’ovazione del pubblico e l’elogio di Gaetano Donizetti. Verdi è conteso, gli impresari fanno a gara per accaparrarsene i servigi, e il grande musicista non si risparmierà (chiamerà quelli “gli anni della galera”, per l’immane carico di lavoro che dovette affrontare).

Nel frattempo l’incontro con la femme fatale Giuseppina Strepponi, la grande cantante che gli restò accanto per tutto il resto della di lei vita e per cui Verdi sfidò i pregiudizi e il moralismo dei suoi contemporanei (la Strepponi era accreditata di grandi successi d’alcova, oltre che teatrali) ha reso ancora più impellente il suo bisogno di affermazione e di espressione. Ma i tempi della maturazione, delle opere immortali, dal Rigoletto alla Traviata, dal Ballo in maschera al Trovatore, non sono ancora giunti, e la necessità di corrispondere agli adempimenti posti dai suoi rapaci committenti frena il suo estro. Tuttavia ascoltare il primo atto dell’Ernani fa impressione, per la quantità di energia e di inventiva che Verdi vi profonde. Cori, arie, cabalette, duetti, trii e quartetti a volontà: l’annuncio della grande stagione del melodramma romantico, statuito nelle note della Lucia di Lammermoor e della Norma, diviene prorompente, stentoreo, irreversibile. Una musica nuova ha portato, il nuovo tempo; ed essa ha trovato il suo alfiere. Colpisce e commuove la prodigalità con cui Verdi dissemina in questi tre quarti d’ora tanto dell’arte sua. Quella testa fina di Rossini avrebbe accantonato, risparmiato, centellinato, da gran conoscitore dell’arte di attrarre il pubblico. Verdi no; perché il suo talento sente l’urgenza, ha un impeto superiore a quel che disciplina ed esperienza suggerirebbero. Perché non si tratta di riempire un teatro, di investire con sagacia i guadagni, di diventare il musicista più famoso al mondo. Tutto questo, senz’altro, c’è o verrà. Ma al giovane genio la pazienza è briglia troppo corta: bisogna con-sonare con l’epoca, con le passioni e i fremiti che agitano tanti. Quella storia che giunge dalla Francia rivoluzionaria, il cui libretto è passato al pettine fine dall’occhiuta censura austriaca, questa storia di passione e di morte, di clangori e duelli, di leoni di Castiglia da ridestare, va musicata con tutti quegli zumpappà perché a egregie cose accenda gli animi forti. Chi esce quella sera del marzo del 1844 dalla Fenice di Venezia ha già idealmente stretto la mano di Carlo Cattaneo e Daniele Manin e Nicolò Tommaseo. E il disfidoti, o Re di don Giovanni d’Aragona, in arte brigantesca Ernani, fa corrugare in un gesto d’inquietudine il sopracciglio del Feldmaresciallo Radetzky.

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