IL MAESTRO E IL MAESTRALE. Rough and Rowdy Ways

by Marco Pezzella

Domenica mattina.

Ci pensa il maestrale a scardinare la certezza festiva di ogni pugliese che spinge la sua vita sulla costa adriatica.

Niente mare oggi.

Tempi più lenti del solito allora.

Leggere qualcosa col caffè che continua a spargere il suo aroma in una casa dormiente con le porte che sbattono per il vento forte. Infinito presente.

Tempi più lenti dunque e voglia di rilassarsi, di sentirsi accarezzati, come bambini, forse perché il vento, oggi, tira schiaffi.

Rough and Rowdy Ways.

Ruvide e chiassose strade.

Eccoci. 

Seduto come me, un settantanovenne sussurra “la mente è lo spirito, il corpo è la materia. Come le due cose si debbano integrare non ne ho idea. Cerco di seguire una linea retta, di stare al passo.” Poi canticchia “I countain multitudes.”

Con la camicia che continua a muoversi imperterrita per il maestrale.

A guardarlo meglio questo settantanovenne è Robert Allen Zimmerman noto, almeno dal 1962, come Bob Dylan.

Dopo otto anni si è seduto di nuovo e ha ripreso a raccontare quello che vede, come lo vede. Con una chitarra acustica, che in alcuni brani di Rough and Rowdy Ways è così sottile da scomparire alla vista, e una elettrica, più giovanile.

Dopo otto anni e un premio nobel ritirato o no, chi se ne frega, in una domenica di maestrale mi sta accarezzando. Non so bene se l’anima o il corpo, ma il risultato non cambia.

Quest’album sintetizza le anime di Bob Dylan ed è a metà fra il nuovo e il classico.

Settantanove anni, per metà vecchietto racconta storie e per metà affamato e smilzo giovanotto che si diverte col blues, come se l’avesse appena scoperto.

La voce migliorata come il vino buono, quello della domenica, appunto, da bere esclusivamente in compagnia.

Questo settantanovenne continua a fare tour e a cambiare le sue stesse canzoni, tant’è che alcuni fan (evidentemente pseudo adulatori dell’indole artistica dylaniana) si dicono delusi, lo mettono in discussione, chiederebbero anche i danni morali se solo potessero. Ma c’ha settantanove anni il Maestro.

Uno di quei vecchietti che sanno tutto loro, che hanno vissuto tutto loro.

Per Bob Dylan è così (leggere Chronicles per credere). Anche senza whisky.

Un vecchietto che quando imbraccia la chitarra in-canta. Tanto da rimanere assopiti.

Assopiti ad ascoltare la sua versione dell’uccisione di JF Kennedy.

Murder most foul. Citazione Shakespeariana, Amleto atto primo.

Più di sedici minuti di ballata, un cortometraggio in bianco e nero.

La più lunga di tutta la carriera di Robert Zimmerman e forse la più apprezzabile di quest’album assieme a Key West (Philosopher Pirate), la già citata I countain multitudes, I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You e Mother of Muses.

Un settantanovenne seduto su una panchina battuta dal vento racconta e noi lo ascoltiamo. Fedeli e silenziosi. Come un’omelia papale o una poesia del più piccolo della famiglia.

Dobbiamo ascoltare.  Infinito presente.

Perché l’arte – è una pozione – possiede in sé questa magia: stringe il cuore, abbraccia, scuote, disorienta, fa pensare, emoziona ed è essenziale. Come respirare.

Lunga vita al maestrale e al maestro Bob Dylan.

L’ultimo disco, disponibile su Spotify, è una perla di rara bellezza catturata da un vecchio marinaio che da la caccia ad una grossa balena.

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