La formidabile Vera e il prodigioso Sergej. Ghena e Krylov per Musica Civica

by Enrico Ciccarelli

Nei tredici anni di esistenza di Musica Civica, la rassegna di musica e parole ideata e portata avanti da Gianna Fratta e Dino De Palma, non c’era mai stata, e difficilmente ci sarà in futuro, una serata così minimalista: in scena solo una donna e un uomo, e un arredo di palco limitato a una sedia e un leggio. Eppure, sul piano dei contenuti si è trattato di uno spettacolo memorabile.

La comunicazione della sociolinguista e «grammamante» Vera Gheno è stata arricchente, autorevole, amorosa. Gheno, ricercatrice all’Università di Firenze, traduttrice dall’Ungherese (una delle sue due lingue madri), autrice di almeno una decina di saggi, propone riflessioni e indagini sulle parole e sul linguaggio basate essenzialmente sull’amore. Invece delle pandette delle prescrizioni e dei divieti, lei sembra avere un unico comandamento: «Ama la lingua tua come te stesso».

Un invito a non sciuparla, a trattarla con rispetto e delicatezza per esaltarne le tre funzioni fondamentali: l’identità individuale, l’identità collettiva e la nomenclatura del mondo. Un amore devoto e partecipe, che, come tutti gli amori veri, lascia libero il proprio oggetto: ne tollera il mutare, ne abbraccia il crescere e il variare, ne accompagna il progredire.

Da convinta femminista, molto attenta alle insidie di una società normocentrica, che spesso usa (anche) le parole per stigmatizzare il diverso e renderlo per ciò stesso inferiore, Gheno sostiene ad esempio la positività dell’uso dello schwa (ǝ), al posto del cosiddetto maschile sovraesteso (che porta a definire al maschile i gruppi composti da più donne e anche un solo uomo). Sì, esatto, proprio quella fastidiosa pretesa del politicamente correttocontro il quale tuonano innumerevoli partecipanti del discorso pubblico, a partire da Pio e Amedeo.

Però, dove vi aspettereste un’acida virago, una maestrina dalla penna rossa in veste di suffragetta, trovate una persona sorridente, ironica e delicata, in grado di campire narrazioni intense e splendide, come per esempio la teoria del «dove poggio il pupo» (non siamo sicuri di citarla fedelmente). Sì, perché noi abbiamo un’idea approssimativa di come sia nato il linguaggio (la stazione eretta ha ampliato la capienza della camera fonatoria permettendoci articolazioni fonetiche prima impossibili), ma abbiamo idee contrastanti sul perché.

La teoria citata spiega che abbiamo imparato a parlare perché, diventati quasi glabri e non avendo più un vello, i nostri cuccioli non potevano più aggrapparsi a noi con le mani. Le femmine della specie erano quindi costrette a lasciarli da qualche parte mentre svolgevano le proprie attività, e usarono le prime parole per rassicurarli della loro vicinanza. Un atto d’amore primigenio e ancestrale che basterebbe da solo a spiegare perché Vera Gheno si definisca una «grammamante». E perché raccolga da sola i fogli con gli appunti della sua conversazione che accartoccia e lascia cadere sul palco con innato senso scenico.

Subito dopo la fine della rutilante conversazione con Gheno, è arrivato sul palco Sergej Aleksandrovic Krylov, cinquantaduenne moscovita che è ritenuto fra i primi dieci violinisti del mondo e a detta di alcuni è il migliore in assoluto. Non abbiamo competenza sufficiente a smentire o asseverare questi giudizi. Di sicuro, se c’è uno migliore di lui, saremmo molto felici di ascoltarlo, perché quello che gli abbiamo visto fare con il violino creato per lui dal padre liutaio nel concerto denominato «Assolo» ha pochi precedenti nella nostra esperienza terrena.

Il programma con cui ha deliziato noi fortunati assembla infatti, più che un concerto, una Fiera Campionaria delle possibilità dello strumento. Pezzi di grande eterogeneità, che hanno spaziato dall’iperclassico al contemporaneo in un percorso vertiginoso, andato dalla celeberrima Ciaccona di Johann Sebastian Bach, alla VII Sequenza per violino solo di Luciano Berio, fino ai Capricci di Niccolò Paganini.

Pezzi tanto difficili quanto relativamente abituali nel repertorio del virtuosismo. Ma non c’è stato nulla di abituale nella Sonata n.2 per violino solo di Eugène Ysayë. Il compositore e strumentista virtuoso belga, celebre per il suo «rubato» (una tecnica di ascendenza chopiniana che fu il primo a mettere in pratica) compose, quando aveva già sessantacinque anni sei Sonate per violino, ognuna delle quali dedicata idealmente a un grande interprete dello strumento.

La seconda, dedicata al suo contemporaneo Jacques Thibaud, è probabilmente la più complessa e difficile. Krylov l’ha eseguita con tale possanza e brio che –non fossimo stati fisicamente presenti- non avremmo mai creduto che a suonare fosse un violino solo (i nostri sensi ne percepivano almeno un paio). L’esibizione ha toccato vertici irripetibili, ben al di là del virtuosismo. Sembrava a tratti che l’interprete traesse i suoni direttamente dal proprio corpo, senza alcuna mediazione strumentale. Esperienza prodigiosa di cui siamo grati agli organizzatori di Musica Civica; ma anche infrequente e sotto certi aspetti scomoda, per quanti credono che un violino serva soprattutto alle sviolinate. Ad maiora, cara Gianna e caro Dino (ed Emanuela e le altre)

Le foto sono di Gabriella Russo

Nel video l’intervista a Vera Gheno

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