Le donne piene di possibilità di Erica Mou

by Felice Sblendorio

Confesso: ho amato ancora di più Erica Mou quando nel suo “Bandiera sulla Luna” ha destrutturato, riempito di vicinanza, calore e senso uno dei brani su cui si fonda la musica italiana: “Azzurro” di Adriano Celentano, scritta da Paolo Conte e Vito Pallavicini. Ho pensato che se un’interprete ti fa riflettere sul testo di una canzone che oramai scorreva meccanico nella memoria di ognuno di noi, quell’interprete conserva nel suo estro artistico una marcia in più, una sensibilità che ricrea e dona. In verità, però, non serviva quest’ulteriore prova.

I cinque dischi della cantautrice pugliese sono alcuni dei lavori più originali e spontanei di una nuova generazione cantautorale: colta, intima, predisposta in maniera naturale al racconto. Dopo il suo ultimo album, Erica Mou ritorna sulle scene con uno spettacolo in dieci tappe per raccontare dieci figure femminili.

Il progetto è “Grazie dei fiori”, realizzato grazie al sostegno di MiBACT e SIAE nell’ambito dell’iniziativa “Per chi crea” e promosso dall’ARCI Comitato Regione Puglia in collaborazione con Arci “Stand by Santeramo” e OTR Live. Un manifesto a colori di possibilità per raccontare, tappa dopo tappa, le donne che hanno colpito la cantautrice, accompagnata sul palco dal polistrumentista britannico MaJiKer e dalla violoncellista Flavia Massimo. Prima di raggiungere Roma, Milano, Grosseto, Modena e Corneliano d’Alba e in attesa delle ultime due tappe pugliesi in programma oggi a La Factory di San Pietro Vernotico e domani all’Auditorium Santa Chiara di Foggia (tappa organizzata in collaborazione dell’Associazione “Jaco”), bonculture ha intervistato Erica Mou.

Dieci concerti per raccontare dieci donne che ti hanno formata: come nasce questo progetto?

L’idea nasce da un gioco di squadra e dallo spunto narrativo nato con Valentina Farinaccio. Io credo, anche vedendo le varie iniziative delle donne del mondo della musica, che si sia muovendo una necessità generazionale di parlare dell’esperienze di genere. Con “Grazie dei Fiori” ho scelto di farlo portando in giro esempi virtuosi di donne. Con Valentina abbiamo deciso di costruire non uno spettacolo femminista, ma un manifesto a colori di possibilità. Portando in scena una donna in ogni tappa diversa noi speriamo di scardinare questo concetto che le donne debbano essere tutte uguali. Queste dieci donne così dirompenti, straordinarie e differenti ci fanno comprendere che gli insiemi, a volte, sono pericolosi perché appiattiscono tutti in una categoria.

Da Saffo alla Carrà, dalla Magnani a Bebe Vio per arrivare a Margherita Hack, Marina Abramović e Donatella Versace. Donne che si sono sempre piaciute e non hanno mai cercato di compiacere.

Per lasciare un segno nella storia non potrai mai piacere a tutti, soprattutto perché non è possibile pensare di splendere per tutti. Cercare di compiacere ti fa perdere il punto centrale della tua esistenza. Questa è una cosa che io ho capito con il tempo.

L’epifania di questo “Grazie dei Fiori” ha il nome di Mia Martini, uno spirito musicale e umano che ti ha influenzata molto. Cosa ti porti di lei?

La sua è stata una vicenda complessa e, per certi versi, assurda. Anche l’amore e il suo percorso umano è stato complesso. Di lei mi porto con me questa concezione della cantante non solo come uno strumento umano utile a veicolare un messaggio, ma un essere che pesa le parole, le sente, le attraversa. Lei è stata sempre immersa in quello che ha cantato.

In un suo brano postumo, “Col tempo imparerò”, Martini canta: “col tempo fra le mani amandomi di più”. Il suo ultimo disco, Bandiera sulla Luna, in fondo parla anche di questo: di riappropriarsi e di trovare l’essenza di ognuno di noi. Quant’è difficile artisticamente?

Per esprimersi, per essere un’artista, trovare la propria essenza credo sia il punto di partenza. Mettersi a fuoco e amarsi per capire quello che si vuol dire è tanto. Tutto quello che portiamo fuori da noi è un nostro frutto. Certo, può essere il frutto della confusione, ma io penso che, anche se spesso ci copriamo di insicurezze e ansie, siamo sempre in grado di capire quando una persona ha dentro di sé una bussola interiore che la guida in quel percorso. Cantare è quella linea sottile fra il conscio e l’inconscio. Quando Vasco Rossi dice che le canzoni sono come i sogni è vero: sono molto più profonde e superiori di ciò che realmente stai pensando. Per me, poi, è affascinante seguire in questo percorso le carriere degli artisti, comprendere la loro evoluzione nel tempo che, quasi sempre, va pari passo con una riappropriazione di se stessi.

In questi ultimi anni è passata dall’intimità di “Tienimi il posto” allo sguardo più ampio e largo sulle cose, e oserei dire sul mondo, di “Bandiera sulla luna”. Facendo questa operazione cosa ha scoperto su di sé?

“Bandiera sulla luna” è un disco di scoperte, perciò si chiama così. Questo non lo fa migliore degli altri, per carità. Io in questo lavoro ho scoperto, ritornando al discorso di prima, la non compiacenza. La stavo scoprendo nella mia vita personale in un momento dove mi erano crollate tutta una serie di certezze incarnate nelle persone più importanti della mia vita che non erano più con me. Durante la creazione di questo album mi sono dovuta riscoprire, mi sono dovuta mettere un po’ più al centro. Mi sono riappropriata della terra per puntare alla luna. Questo è quello che mi è successo. Fra “Tienimi il posto” e “Bandiera sulla luna” c’è stato l’abisso più grande dei cambiamenti della mia vita.

Qual è stato il cambiamento più devastante?

La perdita di mia madre. “Tienimi il posto” è dedicato alla sua scomparsa. Oggi non riesco ad ascoltarlo perché all’epoca l’ho scritto sull’onda di una grandissima sofferenza e di un grandissimo smarrimento dovuto alla perdita della persona più importante della mia vita. Mia madre ha avuto un cancro. Io, ancora una ragazza, l’ho persa giovanissima. Così mi sono dovuta ricentrare. Con la sua scomparsa ho visto lucidamente molte delle cose che mi erano attorno. Ho dato una nuova scala di valori a tutte le cose della mia vita che mi avevano imprigionata e fatto perdere alcune parti di me. Affrontare la morte serve a questo.

All’epoca parlava delle assenze che possono essere delle presenze vere.

Quella presenza è sempre qui. “Sottovoce”, che è un po’ il manifesto di quell’album, è una canzone che faccio sempre perché mi aiuta a raccontare che non occorre parlare ad alta voce per dire, non occorre la fisicità per esserci.

Quella bandiera sulla luna, alla fine, è tutta da ricercare dentro di noi. In una società scandita dall’ansia, dalla conquista e dalla paura del presente – il futuro è un lusso, oramai – come si fa?

È una questione di sguardi. Se io ti guardo da lontano ti vedo in una maniera diversa. Questo lavoro non l’ho fatto per piantare una bandiera su un territorio nuovo: questa è una questione programmatica che a me non interessa. Ho cercato, invece, di guardare al di fuori da me per riguardare me. Quella bandiera è un osservatorio privilegiato su qualcosa che fa parte di noi. È una questione solo e sempre di prospettive.

In molte delle sue canzoni il tempo, quello giusto per fare le cose, invecchiare, amare bene, è molto osannato. Grazie a Instagram so che sta vedendo la serie televisiva “Baby”, dove una giovane generazione cannibalizza il proprio di tempo. Che rapporto ha con il tempo giusto?

Sento su di me gli effetti di questa generazione a cavallo fra due mondi, divisi fra il tempo giusto e quello frenetico. La questione del tempo è fondamentale perché io la sento sempre addosso a me. Io sono una persona molto iperattiva, ho paura del vuoto, quindi sto cercando sempre di più di abbracciare il tempo. Musicalmente ci ho riflettuto quando ho realizzato il singolo “A ring in the forest”. Quella canzone mi ha obbligato ad aspettare un anno: da quando siamo arrivati nel bosco a quando la chitarra è stata pronta. Quel progetto ha visto la realizzazione di una chitarra dall’albero alla fase finale, quindi abbiamo dovuto aspettare dodici mesi. Questa bellissima esperienza mi ha riportato ad una dimensione artigianale. Ho rotto quel loop di fare un disco ogni due anni. Ho ricalibrato tutto su un tempo che mi corrisponde naturalmente e che è lontano dal dovere: l’arte, quella vera, è la cosa più lontana dal dovere e dalla fretta.

L’arte sicuramente, il mercato discografico no.

Per spiegare questa differenza mi aiuto con un esempio. Il mercato discografico è qualcuno che arriva e ti chiede un panino al prosciutto. Ma l’artista non è il salumiere, l’artista è l’allevatore: in quel momento tu hai un maiale e una piantagione di grano. Per mangiare frutti buoni serve aspettare, serve il tempo giusto.

Di questi più di dieci anni di carriera sente di aver sbagliato qualcosa?

Sì, direi piccole o grandi cose che avrei cambiato. Ma tutto quello che ha ancora un senso, anche se oggi sono cambiata e vedo cose che non mi corrispondono più, lo rifarei anche oggi perché era quello che sentivo di dire. Penso sia questo il modo per non sentire nessun rimpianto in una carriera. So di aver fatto le cose con i mezzi che avevo. Poi, sai, io volevo fare la cantante da quando avevo cinque anni e ho sempre pensato alla mia carriera come il percorso della mia vita. Non mi sono servite scorciatoie, quindi, perché ho creduto che avrei fatto questo per sempre. La mia carriera è una maratona che punta alla vita.

In “Svuoto i cassetti” racconta la stanchezza di indossare panni troppo stretti. In più di dieci anni di attività ha mai sentito artisticamente qualche limite?

Sì, senz’altro. Mi sono sentita molto spesso di dover piacere agli altri. È una cosa che succede anche quando sei una donna che fa delle cose. Sentirsi dire che sei brava, che fai bene delle cose, aiuta. Il consenso ti aiuta a continuare sulla tua strada ed evita gli smarrimenti che fanno parte, a pieno titolo, di questo mestiere e della vita. I vestiti stretti che ho messo servivano ingenuamente per far vedere agli altri che vestivo bene.

La musica molto spesso anticipa la vita, l’esistenza. Quella che sta preparando cosa intravede in lontananza?

Musicalmente ho scritto delle cose in cui mi riconosco molto. In quest’ultimo anno sono stata molto libera. Vivendo a Londra ho vissuto oltre la mia zona di sicurezza e mi sono reinventata. Le cose che sentirete vi potranno stupire. Io sono la prima che si è stupita: per quello che ho visto, per quello che ho vissuto.

Per ora c’è questo racconto al femminile. Oltre le dieci donne, però, c’è anche lei: Erica da Bisceglie. Chi vede oggi su quel palco?

Su quel palco ora vedo una donna. Prima vedevo una ragazzina, poi una ragazza, costantemente per gli altri una promessa. Sono sempre stata in attesa e ora non aspetto più nulla. Ora mi sento davvero una donna, un essere umano libero e consapevole. Sento di essere finalmente me. Questo, ovviamente, non mi fa un essere compiuto, però adesso sono pronta per fare questo spettacolo: da donna. Finalmente.

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