Rickie Lee Jones regala al Giordano in Jazz il grande libro americano di sogni e canzoni col suo Kicks

by Antonella Soccio

Non c’erano i tanto amati videomapping o le proiezioni, ma al Teatro Giordano di Foggia è sembrato essere a Pasadena o nel Mayne o sul Mississippi, nella provincia americana, non quella profonda ingrugnita trumpiana, ma quella autentica che tutti abbiamo nell’immaginario cinematografico, fantastico e letterario misto di hipster, poetica della middle class, homeless, viaggi on the road, vita di strade metropolitane di periferia, romantici moli su laghi azzurrati e fumosi locali di cowboys con belle cameriere, dove pescare nell’eterno great american songbook.

È questo il regalo che l’icona del cantautorato statunitense e musa di Tom Waits dell’indimenticata copertina di Blue Valentine, Rickie Lee Jones, ha consegnato al Giordano in Jazz nella sua ultima tappa, unica del Sud e esclusiva regionale, del mini tour italiano.

Il concerto aperto dai suoni elettrici del percussionista e vibrafonista Mike Dillon è stato un pezzo straordinario di storia e memoria per i tanti ex ragazzi degli Anni Settanta e Ottanta che hanno affollato la platea e i palchi del Teatro Giordano. Lee Jones è ancora per tanti di loro il mito ineguagliabile, una figura di riferimento per quel suo profondo e idiosincratico modello di vita, preso ad esempio anche in Italia. Un misto tra Patti Smith e Joni Mitchell, ha scritto qualcuno, ma molto più cool, sexy ed irrequieta. E perduta.

La cantante di Chicago con una temerarietà ancora adolescenziale e una grande teatralità ha acceso i cuori di tanti appassionati che la seguono da quando nel 1979 conquistò un Grammy Award come debuttante, influenzando poi una progenie di rockeuse, fino a Suzanne Vega e finanche Alanis Morrisette.

Ieri la grande crooner, che ha mescolato blues, jazz, rock e canzone d’autore rivisitata in chiave elettronica, ha proposto soprattutto brani dal suo nuovo album “Kicks” dedicato ai “fossili dell’American pop”: quando ha cantato la hit del suo esordio Chuck E’s in Love con l’indolenza tipica della sua identità graffiata il pubblico è andato in visibilio. Era evidente in alcuni palchi la profonda commozione dopo 35 anni di attesa. A molti non sembra vero che il loro mito, la stessa ragazza di cui avevano consumato il disco, fosse a Foggia.   

Cliff Hines alle chitarre e al mandolino elettrico e Robbie Mangano al basso, più alcune tastiere, hanno seguito la costruzione del suono davvero notevole che trova il suo centro nel dialogo tra il piano di Rickie Lee e il drumming di Mike. 
La sua voce, più accentuatamente minimalista, è ancora quella di sempre, ha la stessa grazia: la cosa più straordinaria per chi, più giovane, non ha vissuto gli anni del suo successo e magari è molto distante emotivamente dal suo stile, è proprio l’andatura vocale di Rickie Lee Jones, che riesce a confermare quanto si possa essere sexy, con un’anima immutata, anche a più di 60 anni. Sul palco ha portato un ideale di femminilità che è ancora quello del basco e dei biondi capelli lunghi, come se bastassero dei sospiri, delle sprezzature del busto, dei falsetti chic e una cavernosa voce jazz che sa accendersi e vibrare per immortalare la donna che si vuole essere.

“Quando sei una donna e sei giovane, per tanto tempo ti valutano solo con il metro del sesso. Un giorno quella storia per fortuna finisce, e allora cominciano ad ascoltare davvero quello che fai. Quel tempo è arrivato da qualche anno, ed è molto più rilassante. Ho vinto io, sono durata abbastanza”.

Bellissime le interpretazioni di Cry, una ballata registrata da Ray Charles, Houston, brano di Sanford Clark del 1964 reso famoso da Dean Martin l’anno successivo e di Nagasaki, scritto dagli Ipana Troubadours nel 1928 ma conosciuto perlopiù per la versione del Benny Goodman Quartet del 1952, tra le dieci cover dagli anni Cinquanta ai Settanta, che spaziano con naturalezza tra pop, rock e jazz.

Applausi scroscianti per il finale. Ma nessun bis per fan sconsolati e felici.

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