Ricordando Madama Farfalla

by Enrico Ciccarelli

Per quanti bazzicano il melodramma, l’aria Un bel dì vedremo della Madama Butterfly (1904) è un capo d’opera irrinunciabile, anche per quanti non hanno mai avuto modo di vedere l’opera integrale in teatro. La magia di Puccini fa sì che parole e musica bastino a se stesse indipendentemente dal plot, perché nel sogno dell’infelice Cio-Cio San, nell’attesa del segno di nave che le restituirà felicità e serenità c’è la condizione umana nella sua interezza: un orizzonte fatto di speranza in ideale contrapposizione ai patimenti o al tedio del presente. A nessuno di noi ritengo sia estranea la minuzia con cui Butterfly immagina lo scioglimento della sua angoscia, a nessuno l’irritazione con cui scaccia via il pessimistico realismo dell’ancella Suzuki (tienti la tua paura!).

Non è privo di interesse, però. il meccanismo complessivo della trama dell’opera, che origina da un omonimo racconto dell’autore statunitense John Luther Long, pubblicato nel 1898. Puccini ne vide due anni dopo a Londra la versione teatrale in atto unico (l’opera è in due atti e tre parti) che ne aveva ricavato David Belasco. Belasco fu commediografo e drammaturgo di notevole prolificità, nonché un autentico genio delle messinscene: da lui Puccini ricavò anche, qualche anno dopo, La Fanciulla del West.
Quelli tra fine Ottocento e inizio Novecento, furono anni di impressionante sviluppo tecnologico, celebrati e sospinti dai miti universalistici del positivismo. Le esplorazioni e il libero scambio avevano ampliato di molto la conoscenza delle culture non occidentali. Poco meno di mezzo secolo prima della “data odierna” di cui parla il libretto dell’opera, quattro navi da guerra della Marina degli Stati Uniti al comando del commodoro Perry avevano gettato l’ancora nella baia di Tokio, imponendo al Giappone l’apertura al commercio con il mondo. La città di Nagasaki, dove è ambientata la Butterfly, era stata la prima, nel 1848, ad aprirsi agli stranieri.
L’urto di civiltà descritto nel racconto, nel dramma e nell’opera non è quindi frutto di semplice immaginazione, ma traduce eventi che probabilmente si verificarono con regolarità. E al pubblico dell’opera non parve particolarmente strano o scandaloso che l’ufficiale americano James Pinkerton sposi Cio-Cio San, che il suicidio del padre ha lasciato in miseria e costretto a fare la geisha, che in quel momento ha solo quindici anni. Né che il matrimonio, di cui la ragazza immagina la sacralità, sia per lui poco più che una burla.

Non lo è, naturalmente, per i parenti di madama Butterfly, che a seguito della sua abiura del culto scintoista e la conversione al Cristianesimo, la condannano e la allontanano (ci hai rinnegato e noi ti rinneghiamo!). L’infedele Pinkerton tornerà solo perché ha saputo che Cio-Cio San gli ha dato un figlio, e torna con Kate, la sua “vera moglie”, per portare il bambino negli Stati Uniti. A lei non resterà che uccidersi.
Benché Puccini studiasse per qualche anno la cultura giapponese, si tratta di un Sol Levante di maniera, ricostruito in maniera rozza e stereotipa, come è comprensibile fosse in un tempo pre-globalizzato. Ma dal punto di vista dello spettatore quel che conta, come nell’Otello di Shakespeare, è che l’inganno di Pinkerton gli è noto fin dal primo atto; e sa quindi dall’inizio quanto sia vana la speranza di Butterfly e quanto sia inutile il suo patire. Ma dirglielo non può, per la dannazione dello spettatore e la sua impotenza a intervenire nell’azione che si dipana sul palco. Da qui una particolare tensione e partecipazione.

Come spesso è accaduto ai capolavori, la prima, svoltasi alla Scala, fu un fiasco. Vi contribuirono, probabilmente, le tradizionali divisioni della scena musicale scaligera, che dopo la morte del gran veglio Giuseppe Verdi, avvenuta tre anni prima, era attraversata da ogni sorta di conventicole e camarille. Puccini, che di musica sapeva assai, non celò la delusione; ma mise comunque mano a libretto e spartito portando l’opera al successo di lì a qualche mese a Brescia. Presto la storia d’amore e di morte di Pinkerton e Cio-cio San entrò in cartellone nei principali teatri lirici del mondo, e vi si trova tuttora.

La grazia di Butterfly e il suo dolore sono d’altronde segnate dal suo nome. La farfalla è in ogni forma di manifestazione artistica un simbolo di bellezza e fragilità intrecciate e connesse: bella perché fragile e fragile perché bella. Anche per questo, delle centinaia di incisioni che hanno reso rammemorabile quest’aria, va preferita quella di Maria Callas, che della bellezza e della fragilità fu icona assoluta. Probabilmente non è stata la migliore soprano di ogni tempo, anche per il suo permanente spaziare lungo tutto l’arco della produzione lirica italiana e internazionale.
La sua vita sentimentale tormentata (l’amore con Aristotele Onassis, che la lasciò per Jacqueline Kennedy, il rapporto tenerissimo con Pierpaolo Pasolini, per cui girò Medea), contribuì alla sua leggenda non meno del titanico sforzo con cui si fece, da robusta, magrissima (avrebbe inghiottito volontariamente una tenia). Il timbro celestiale non fu sempre assistito da potenza vocale adeguata; ma la devozione che le tributarono i suoi ammiratori in vita e in morte non ha confronto, e tuttora risplende nei fiori che quotidianamente adornano la sua tomba, al Père-Lachaise di Parigi, dove riposa vicino a Isadora Duncan e Jim Morrison, e non lungi da Edith Piaf e Amedeo Modigliani.
Un bel dì, vedremo una cantante della stessa levatura, con lo stesso inarrivabile carisma? Azzardato presumerlo. Ma forse gli Dei della musica saranno così benevoli da concederlo.

Un bel dì, vedremo
levarsi un fil di fumo sull’estremo confin del mare.
E poi la nave appare.
Poi la nave bianca
entra nel porto, romba il suo saluto. Vedi? È venuto!
Io non gli scendo incontro. Io no. Mi metto
là sul ciglio del colle e aspetto, e aspetto
gran tempo e non mi pesa,
la lunga attesa.
E… uscito dalla folla cittadina
un uomo, un picciol punto
s’avvia per la collina.
Chi sarà? chi sarà?
E come sarà giunto
che dirà? che dirà?
Chiamerà Butterfly dalla lontana. Io senza dar risposta
me ne starò nascosta
un po’ per celia e un po’ per non morire
al primo incontro, ed egli alquanto in pena
chiamerà, chiamerà:
Piccina mogliettina
olezzo di verbena,
i nomi che mi dava al suo venire. [a Suzuki]
Tutto questo avverrà, te lo prometto.
Tienti la tua paura, io con sicura fede l’aspetto.

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