Seventeen Seconds: compie 40 anni la foresta pulsante e urlante di Robert Smith e i Cure

by Gianfranco Maselli

Chiudersi alle spalle le porte dell’adolescenza spesso è una scelta necessaria, anche se questo significa tuffarsi in un mare pulsante di oscurità illuminato da luci che scorrono veloci lungo i bordi, rischiarando squarci spaventosi e, spesso, indicibili.

Sciocco sarebbe etichettarci come avventati viandanti e dimenticarci quanto può essere gratificante inventare la nostra crescita, il nostro dolore, il nostro dramma, la nostra maturità pur sapendo che pagheremo un prezzo che sappiamo essere spaventoso ma necessario a nutrire la chiamata e farla sparire dalla nostra testa.

Nel suo ventunesimo anno di vita per Robert Smith non è più possibile resistere a quella voce che lo chiama e lo invita sinuosamente ad abbandonare quella stanza di luce, comfort ed elettrodomestici che è la copertina dell’esordio Three Immaginary Boys, per toccare con mano cos’è che preme fuori: una foresta pulsante e urlante che è il setting di Seventeen Seconds.

Rovi spinosi, chitarre striscianti come serpenti e clap che ansimano come il fiato di bestie antiche quanto la natura stessa lo svegliano, nel cuore della notte, e lo guidano a lasciare quella arredata e calda zona di comfort in un drammatico addio verso l’ignoto, non senza un brivido che scorre lungo la sua schiena e quella di Simon Gallup, l’eterno compagno d’infanzia.

Ancora non sanno che al di là di quella porta si smarriranno in una foresta dove la luce pulsa raramente e ad intermittenza, come nelle danzanti chitarre del finale di “M” e nella dolce malinconia di “Secrets”, gli unici due spiragli che sembrano rischiarare per un attimo le tenebre dell’intero disco.

Ignorano che in quella foresta conosceranno la paura, che troveranno il coraggio di parlare della morte, che cammineranno per la prima volta al suo fianco come una dolce e vecchia compagna e, che in un nichilismo completamente inedito, approderanno ad un linguaggio nuovo dove la lezione post punk di Bauhaus e Joy Division sembra essere solo un gioco d’infanzia che riecheggia, lontano.

Dalla seconda traccia l’ipnotismo delle chitarre di Smith si libera senza freni lungo l’oscuro spazio erboso. In un dialogo d’intesa continua, ricerca e trova sempre nell’oscurità il basso e i suoi giri, che ora corrono ridondanti e martellanti come in “Play for Today”, ora raggiungono una sinuosità affascinante come in “In Your House”, una danza splendida e tetra di cui Simon Gallup, a soli 20 anni, sembra conoscere incredibilmente ogni passo in modo magistrale.

Le cupe partiture di pianoforte delle strumentali “A reflection” (in apertura) e di “The Final Sound” e l’inaspettato uso degli acidi e spinosi sintetizzatori in “Three”, che sembrano sospingere il disco verso le vette di un trip hop ante litteram, ci portano invero ad un cunicolo oscuro, sempre più angusto e tetro.

Sappiamo già che tutto questo non condurrà verso un’aperta pianura, con la stessa certezza con cui dopo l’Estate ci aspettiamo l’Autunno, la maturità, la decadenza della leggerezza giovanile.

Oltre il tunnel su cui corrono incerti i nostri passi fangosi, oltre quelle pareti strette e viscide che ci tocca tastare per orientarci senza luce, oltre quella spiazzante interferenza alla fine di “The Final Sound” la nostra mente e il nostro corpo incontrano il dubbio che il disco possa essersi inceppato. Al di là dell’illusione, tuttavia, c’è soltanto un buio più grande, quello di un cuore pulsante di vita al centro della foresta intera.

Le chitarre in flanger in “A Forest” corrono sulla linea di basso ad intermittenza, così veloci che sembra non possano fermarsi mai. Il moto perpetuo alimentato da Gallup e Smith disegna una natura oscura e selvaggia che sembra invitarci ad unirci ad una danza tanto irrazionale quanto antica. Come menadi danzanti cominciamo a girare vorticosamente fino a cadere a terra stremati, per osservare gli arbusti lunghissimi sopra di noi allungarsi verso il cielo notturno, senza stelle.

Dopo 40 anni di musica allo stesso modo ci perdiamo, danziamo e cadiamo e ci rialziamo sulle note della dolcissima “M” dedicata alla compagna Mary e infangata del tormento amoroso di Smith e ci trasciniamo a fatica e sudati attraverso i 5 minuti di “At Night”, una litania che lascia presagire tutto fuorchè la drammatica pioggia che la title track “Seventeen Seconds”, nella sua altalenante malinconia, porta su tutta la foresta suggellando non solo un disco indimenticabile ma anche un picco della new wave e della musica tutta.

In questa sconfinata flora di sentimenti che è la fine dell’adolescenza e l’abbandono della sua confort zone, ben vengano dolore e tormento se capaci di condurre al piacere e, talvolta, alla maturità di un disco che sembra restare immortale come quell’antico richiamo che ci invita, ancora una volta, a sporgerci verso la nostra natura più selvaggia e, alla fine, a guardarci dentro per trovare davvero noi stessi.

Gianfranco Maselli

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