The dark side of the moon, 50 anni del capolavoro dei Pink Floyd

by Claudio Botta

Un disco impossibile da inquadrare in un genere musicale, a distanza di cinquant’anni esatti (registrato nei mitici studi di Abbey Road a Londra in due sessioni differenti, nel giugno del 1972 e nel febbraio dell’anno successivo, è stato pubblicato negli Stati Uniti il 1° marzo, e poi il 23 marzo nel Regno Unito). Uno dei più venduti della storia della musica, e quello in assoluto al primo posto per le presenze consecutive nella classifica di Billboard, più di mille. La cover progettata da Storm Thorgenson dello studio grafico Hipgnosis diventata una delle immagini che hanno caratterizzato la seconda metà del Novecento, ispirata da un’illustrazione inerente il processo di creazione della luce attraverso un prisma di vetro: un triangolo, una linea bianca, sei rette parallele colorate (rosso, arancione, giallo, verde, blu e porpora, l’arcobaleno riprodotto ad eccezione del porpora utilizzato al posto di indaco e viola) disegnati da George Hardie.

‘The dark side of the moon’ è qualcosa che non c’era mai stato prima e non ci sarà mai dopo, e non solo nella discografia dei Pink Floyd. Non un semplice concept album ispirato al ‘lato buio’ degli esseri umani, sul sottile confine tra equilibrio e follia; non solo punto di arrivo e al tempo stesso di partenza di sperimentazioni sempre proiettate in avanti; non solo lo scorrere incessante e inesorabile della vita, e il fantasma della morte. Non solo testi ispirati di Roger Waters e la sofferta elaborazione del dolore per l’alienazione che aveva progressivamente allontanato e travolto il fondatore Syd Barrett; non solo musiche esaltate – oltre che dal talento cristallino dei componenti – da tecniche di registrazione all’avanguardia, dalle registrazioni multitraccia ai sintetizzatori analogici, all’ampio e mirato utilizzo di sonorità ricavate dall’ambiente circostante, notevole il contributo di Alan Parson.

Cinque tracce per lato, ognuno con la sua marcata identità, inizio e fine dell’album con la riproduzione del battito cardiaco. Una sequenza di canzoni entrata nell’immaginario di milioni di fans di ogni età. ‘Speake to me’ scritta unicamente dal batterista Nick Mason, ouverture ipnotica di suoni confusi e incalzanti, voci ed urla distorte. ‘Breathe’ la seconda. Parlare, respirare: è l’inizio della vita. ‘On the run’: la corsa che diventa regola imposta, per non restare indietro, anche se non ne conosci il motivo e non ne comprendi il senso, anche se ti mancano il fiato e le corse, anche se crolli ma nessuno sembra preoccuparsene, nessuno à lì ad aspettarti e aiutarti. ‘Time’: il centro e l’incubo. Ti sorprende quando è trascorso, ti inchioda alle tue responsabilità e ai tuoi limiti, non puoi fermarlo o rallentarlo in alcun modo, è un’onda che devi imparare a cavalcare come su una tavola da surf, e non devi sprecarne nemmeno un attimo, in particolare non devi buttarlo via per superficialità e mondanità frivola. ‘The Great Gig in the Sky’, uno di brani più potenti, che affronta apertamente il tema dell’ineluttabilità della morte, interamente strumentale ma squarciato dalle improvvisate melodie vocali di Clare Torry, cantante turnista che ricevette 30 sterline per la collaborazione, ma nel 2004 trascinò i Pink Floyd e la Emi in tribunale per avere una quota di royalties in linea con l’enorme impatto emotivo del suo contributo (l’accordo economico raggiunto tra le parti non è mai stato reso noto).

Il secondo lato, invece, tutto centrato sulla società. ‘Money’, l’ossessione contemporanea, l’aspirazione, la distorsione, la piena che trascina tutto e tutti impossibile da arginare, il consumismo malato e sbeffeggiato dal suono del registratore di cassa, delle monete, dei fogli strappati, delle calcolatrici. ‘Us and them’, la natura umana che non riesce a sottrarsi a conflitti e guerre quotidiane, con le distinzioni che sono soltanto apparenti. ‘Any Color You Like’, ancora conflitti, ancora scelte difficili, ancora tormenti, ancora crisi. ‘Brain damage’: l’andare fuori di testa non è più un’ipotesi remota ma una concreta realtà. Una sconfitta della sensibilità rispetto al cinismo, del sentimento rispetto a una ragione inflessibile e rigorosa, delle regole e delle conquiste stravolte da altre regole non scritte ma universalmente imposte. Il rimpianto per Syd struggente e dolcissimo. ‘Eclipse’, il cerchio che si chiude, il ciclo che si completa, un’amara riflessione su quello che è stato e che sarà (doveva essere il titolo dell’album dopo che quello scelto era già stato usato da un’altra band, i Medicine Head, ma le scarse vendite di quel loro lp suggerirono di tornare all’idea originaria senza paura di generare confusione tra gli appassionati di musica).

Un capolavoro che, cinquanta anni dopo, ha conservato tutto il suo fascino e la sua attualità. Il bassista e paroliere Roger Waters, il chitarrista David Gilmour, il batterista Nick Mason e il tastierista Richard Wright in stato di grazia creativa. I pezzi presentati dal vivo, non nella forma definitiva, durante un tour in Europa e Stati Uniti prima dell’uscita dell’album: un rodaggio che ha contribuito a raggiungere la perfezione successiva, sia in studio che live. Vivrà adesso una nuova stagione, con delle uscite celebrative in varie edizioni e formati. Non potrà rivivere suonato e cantato in tour dalla formazione originaria, dopo la perdurante, fragorosa, polemicissima uscita di Waters dalla band e la morte di Wright il 18 settembre 2008. Anche se gran parte dei pezzi vengono proposti in concerto sia da Waters che da Gilmour nelle loro versioni soliste, come del resto le altre gemme dello straordinario repertorio dei Pink Floyd. E i contrasti già insanabili tra le due colonne portanti e anime sono stati amplificati ancora più dalla guerra in Ucraina, che ha visto il bassista attaccare duramente gli Stati Uniti e il secondo sostenere anche economicamente il paese aggredito con il singolo ‘Hey Hey Rise Up’ – firmato Pink Floyd – registrato accompagnando Andriy Khlyvnyuk, voce dei Boombox, affermata band ucraina (oltre 450mila sterline raccolte). Il presente ancora e sempre caratterizzato da insulti reciproci attraverso interviste (Waters) e post social (Polly Samson, moglie di Gilmour su twitter, con like del marito). Contrasti che, dopo decenni di battaglie legali e veleni – con due sole, pallide tregue: la reunion della band al completo per il Live 8 il 2 luglio 2005 ad Hyde Park, a Londra, 24 minuti ancora (e per l’ultima volta) insieme su un palco dopo la data conclusiva del The Wall Tour il 17 giugno 1981 all’Earls Court, in scaletta nell’ordine ‘Speak to me’, ‘Breathe’, ‘Breathe reprise’, ‘Money’, ‘Wish you were here’ e ‘Comfortably numb’; e l’apparizione a sorpresa di Gilmour il 12 maggio 2011 alla 02 Arena di Londra sul finale della tappa del The Wall Tour di Waters – non rendono giustizia alla grandezza di un gruppo leggendario e costringono i fans a un antipatico (e insopportabile, per i fedelissimi) schierarsi in una fazione da contrapporre all’altra.

La speranza è almeno in una tregua permanente. In attesa dell’arrivo in Italia in primavera di Waters per le sette date indoor a Milano e Bologna del suo ‘Farewell Tour’ (tutte sold out nonostante i prezzi proibitivi dei biglietti: a 79 anni sarà difficile un nuovo tour, anche se la musica regala longevità che meriterebbero studi e ricerche approfondite); e dell’annuncio di un nuovo lavoro di Gilmour, reduce dal record mondiale di 21,5 milioni di dollari raccolti (e girati in beneficenza a ClientHeart, ente che si occupa della lotta ai cambiamenti climatici e al surriscaldamento globale) dalla vendita di 126 sue chitarre all’asta, compresa la mitica Black Fender Stratocaster del 1969 (aggiudicata da un fortunato collezionista per 3 milioni 975mila dollari) utilizzata per quasi tutte le sue registrazioni più importanti, ‘The dark side of the moon’ compresa.

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