We are the world, la notte che ha cambiato anche noi

by Claudio Botta

Non un semplice racconto del dietro le quinte di un evento epocale, ma un fermo immagine su un momento irripetibile e un tuffo emozionante in un passato, un vissuto personale e collettivo che non può lasciare indifferenti. We Are the World: la notte che ha cambiato il Pop, documentario Netflix dal titolo (esageratamente?) altisonante sia nella traduzione italiana che nella versione originale, lanciato sulla piattaforma in sordina, ha subito riscosso un consenso planetario inaspettato anche per gli stessi autori e produttori. Ed è ricchissimo di momenti memorabili, divertenti, toccanti, di notizie sulla genesi e realizzazione del disco e del video che nel gennaio 1985 videro insieme le più grandi star americane dell’epoca, mobilitate per una nobilissima causa (una raccolta fondi per l’Etiopia devastata dalla carestia) e per replicare alla Band Aid anglosassone altrettanto stellare messa insieme due mesi prima da Bob Geldof, prima di allora ‘semplice’ frontman degli Boomtown rats.

“I bianchi salvano i neri, adesso tocca ai neri salvare i neri” le categoriche parole di Harry Belafonte, cantante e attore e icona dell’impegno a favore della comunità black -accanto a Malcom X in tante battaglie- a Lionel Ritchie sempre più in ascesa nella sua carriera solista (il singolo All night long, giusto per ricordare il suo più grande successo, era uscito nel 1983) dopo l’esordio con i Commodores. Decisivi il carisma e i contatti del supermanager Ken Kragen, e la scelta di coinvolgere il re Mida Quincy Jones per la produzione e direzione: persone alle quali era impossibile rispondere “no grazie, non posso”, al netto degli impegni e dei tour mondiali. Scopriamo così da spettatori che la prima opzione per scrivere la canzone insieme a Ritchie -voce narrante del documentario, seduto al centro dello studio A&M di Los Angeles dove avvenne la registrazione- era Stevie Wonder, altro amatissimo semidio, che contattato tardò a rispondere e venne di fatto sostituito da Michael Jackson, traghettato proprio da Jones dalla black music della Motown all’olimpo del pop mondiale. Esilarante il ricordo dei giorni di lavoro nella casa del più celebre dei Jackson five (non ancora il ranch Neverland a Santa Barbara, che venne acquistato nel 1988), con continue interruzioni provocate da animali non propriamente domestici come una scimmia desiderosa di attenzioni, un merlo indiano geloso delle qualità vocali di un pappagallo, e un serpente. Incredibile -adesso ma anche all’epoca- la scelta di ‘scartare’ Madonna già famosa per Like a virgin e preferire la ‘rivale’ Cindy Lauper (autrice comunque di una performance memorabile, più volte ostacolata dal rumore delle collane incautamente indossate). Ammirevole l’adesione del ‘boss’ Bruce Springsteen, nel punto più alto della sua popolarità dopo il successo clamoroso di Born in the Usa e sfinito dal tour mondiale che si concludeva proprio a ridosso della registrazione, e (apparentemente) sorprendente quella di Bob Dylan, il mito schivo e inarrivabile di quella generazione, un po’ appannato in quella decade ma pur sempre il guru dell’America impegnata e pacifista: i tasselli iniziali che hanno spinto mostri sacri e talentuosi emergenti ad accettare l’invito per fare parte di USA for Africa (acronimo da intendere legato alla nazionalità e pure United Support for Artists).

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Il demo registrato su una cassetta e spedito a cinquanta artisti cinque giorni prima della registrazione, fissata per la sera del 28 gennaio, dopo gli American Music Awards che avrebbero riunito a Los Angeles il gotha dello star system, la cerimonia presentata dallo stesso Ritchie: solo quella sera e quella notte quindi a disposizione per il brano e per il video. Un’impresa riuscita nonostante paure, stanchezza e difficoltà tecniche, grazie soprattutto all’esperienza di Quincy Jones, all’invito a ‘lasciare il proprio ego fuori dalla porta dello studio’ e al richiamo al dramma che aveva ispirato l’intera operazione fatto da Bob Geldof volato dall’Inghilterra proprio per quello, alla decisione di non separare le tante stelle presenti nemmeno durante le registrazioni delle rispettive parti soliste (con qualche eccezione). Rivisto oggi, appare ancora più imbarazzante il disagio di Bob Dylan sia nelle parti corali (nelle quali appare ma non canta perché non riesce a raggiungere la tonalità) che nella propria, la più attesa, e l’aiuto di Stevie Wonder è stato decisivo per uscire dall’impasse. Impossibile però convincere il sogno proibito Prince (rimasto in un club della metropoli californiana dopo il secco “no” alla concessione di un assolo di chitarra in una stanza attigua) nemmeno facendo leva sulla presenza della sua fiamma Sheila E. (che andò via sentendosi usata), con Huey Lewis subentrato al suo posto nelle parti soliste.

 Il documentario di Bao Nguyen alterna immagini di quella notte a interviste ad alcuni dei protagonisti che hanno retto benissimo il peso del tempo, non risparmia e non censura situazioni borderline (Al Jarreau vistosamente brillo che non riesce a ricordare il testo assegnato, lo scorrere dei minuti e l’aumentare della tensione e dell’insofferenza), mostra aspetti inaspettati (una Diana Ross che chiede l’autografo a Daryl Hall sul suo spartito, e scoppia in lacrime quando tutto è finito e bisogna tornare a casa) e alla fine celebra quarantasei artisti che diventano davvero un unico gruppo, “una famiglia” per citare Ritchie, che si commuove e commuove quando ricorda le esatte posizioni in cui erano collocati i suoi colleghi in quella stessa stanza. I titoli di coda omaggiano quei miti che ci hanno lasciato (Michael Jackson, Harry Belafonte, Ray Charles, Tina Turner, Kenny Rogers e altri) e mentre scorrono lenti, si salutano idealmente anni in cui non esistevano i social network e per emergere bisognava avere talento, non bastava diventare influencer. In cui la solidarietà non era un’industria o un ramo d’azienda, ma qualcosa che dalla visione di un filmato della BBC poteva spingere una rockstar nemmeno poi così popolare a organizzare qualcos’altro che avrebbe raggiunto l’intero pianeta prima con un disco e poi con il più grande concerto della storia, il Live Aid, nel luglio 1985 negli stadi di Londra (Wembley) e Philadelphia (JFK). Sono stati raccolti da allora centinaia di milioni di dollari, non si è salvato e sfamato un paese e un continente, ma è stato gettato un macigno nello stagno dell’indifferenza, e la musica ha acquisito la definitiva consapevolezza del suo potere e della sua autorevolezza (che Bono, il leader degli U2, usò nei decenni a venire incontrando capi di stato autorevolissimi nella sua battaglia per cancellare il debito dei paesi poveri nei confronti di quelli ricchi; che Sting avrebbe cercato di usare per salvare la foresta amazzonica dalla deforestazione selvaggia; che avrebbe fatto di Elton John il paladino della lotta all’Aids, per citare solo tre star pluri-impegnate). E non ci si interrogava sulle ricadute e sulle modalità di quelle azioni, il rovescio della medaglia che oggi fa così discutere. O sulla effettiva qualità delle canzoni-traino.

Era ricco di contraddizioni anche quel mondo, ci mancherebbe: ma il confronto con quello attuale appare (è?) impietoso.

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