Artaud, il fondatore del teatro della crudeltà

by Filippo Mucciarone

Il fondatore del teatro della crudeltà, Antonin Artaud, forse non immaginava nella sua lucida visionarietà “folle” le potenzialità poi dunque rivelatrici (al volgere del secolo breve e della Contemporaneità), della destrutturazione e della postuma unificazione a tratti coatta, votata allo “sperimentalismo recalcitrante” di una idea proto umana e di un nuovo modus operandi, sui metodi di intendere la sua stessa idea di teatralità.

Che, tra le due guerre mondiali, prendeva a “prestito epico” dalla trasversale (e del resto) soggiacente realtà artistica (della quotidianità) dei totem della cultura messicana e dei Tarahumara che di quelli iper disciplinari e disciplinanti di Balì e del teatro danza come il Legong kraton o il Kebyar duduk (che per la prima volta Artaud scopre “da e per” la sua Francia in occasione dell’Exposition Universelle di Parigi del 1931), una ragion d’essere presente di onnisciente pregnanza che tanto egli osteggiò già in ambito culturale francese circa un pro rinnovamento di una cultura (persino) simbolista che aveva ormai esaurito (a suo modo di sentirsi vivo nel suo tempo) la propria interazione attrattivo-repulsiva d’una sua ipotetica riproposizione. Ormai dunque, stantia e opacamente aperta al multiculturalismo neo spirituale e pluri grammaticale dell’azione teatrale in seno la Crudeltà, ispirante da Lui stesso pensata ed immaginata.

Nella summa evocativa ed emblematica, della sua pubblicazione “Il teatro e il suo doppio”, ove convergono il primo ed il secondo manifesto della crudeltà, oltre ad importanti scritti di genesi rifondatrice sul pensare un innesto tra corpo, attore ed autorialità registica nel tessuto spesso scarno e dissacrante del contesto spaziale di scena, Jacques Derrida nella prefazione-introduzione, non esita a definire e descrivere (oltremodo) tale predisposizione vitale allo spettacolo come “Substrato”.

(E)…“Promuovendo perciò un teatro in cui immagine fisiche violente frantumino e ipnotizzino la sensibilità dello spettatore travolto, come turbine di forze superiori che facciano abbandonare la psicologia raccontando lo straordinario inscenando conflitti e forze naturali, sottili, come eccezione e forze di derivazione…Dove sempre a ogni movimento e sentimento dello spirito e sussulto di affettività umana far corrisponde un respiro di un proprio istinto di captare e irradiare certe forze come “materializzazione visuale e plastica della parola” e come “linguaggio di tutto ciò che si può dire e rappresentare su un palcoscenico indipendentemente dalla parola”…

In Artaud la grammatica del teatro della crudeltà si doveva ancora trovare, intesa come limite inaccessibile di una rappresentazione che non sia ripetizione e che non porti in se il doppio come una morte, o un presente fuori dal tempo, di un non presente…Scrittura come spazio stesso e possibilità della ripetizione in generale nel movimento indefinito della finitezza, in origine della tragedia come assenza di origine semplice. Artaud che rifiuta di sussumere la vita sotto l’essere invertendo difatti la genealogia in primo luogo di vivere secondo la propria anima, apre alla possibilità attraverso tale fulcro obbligato, di tal pensiero, che riflette la tragedia come ripetizione rifiutando la morte, ad un teatro essenziale come la Peste.

Non perché questa sia contagiosa, ma perché come la peste è la rivelazione della trasposizione in primo piano, la spinta verso l’esterno di un fondo di crudeltà latente attraverso cui si localizzano in un individuo o in un popolo tutte le possibilità perverse dello spirito. Il teatro come la peste è modellato su questo massacro, separazione essenziale. Scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità, e se talune nefaste, in tal caso la colpa non è della peste ma della vita…In un fluttuare verso quelle catarsi delle coscienza collettive riconducenti dall’ordine interiore verso una pace esterna da cui trarranno giovamento tutti gli spiriti…E a proposito di un teatro perduto, smettendo di essere un gioco, svago di una serrata effimera, diventa atto utile e terapeutico come quando in antichità le folle vi venivano ad attingere il gusto di vivere e la forza di resistere agli assalti della fatalità”.

Del resto le diatribe mai del tutto sopite sulla nuova mise en scène di inizio ottocento, storicamente rende ancor più neutrale sterili tautologie di riscoperta classicista rappresentato dall’intermezzo del Paradosso dell’Attore di Diderot. Che se da un lato porterà alla contesa “intesa” un raffronto tra la tragedia romantica di V.Hugo inversamente con il naturalismo “nouvelle formule” di E’. Zola, dall’altro ugualmente porrà le basi di refrattarietà che vedranno, anche a partire da una nuova riscoperta della danza classica con il balletto classico romano, tanto irrompere nelle scene il trompe l’eoil in Isben che una necessità “anti claustrofobica” nella disputa tra scena interna ed esterna in Cechòv. Strindberg tra otto e novecento anticipa quasi le basi del teatro moderno nel dramma, attraverso gli insegnamenti della partitura fonetica gestuale introdotta da Francois del Sarte (Le metteur in scene), omologato poi dalla coppia Vigny – Chatterton, sin dunque attraverso il dipanarsi in lotta fra le anime di una scena spoglia, di Antoine.

Ed ancora, del resto, per dirla con U.Artioli come in “Le origini della regia teatrale”, “Oggi non si va più a teatro per vedere rappresentati Euripide, Pirandello o Shakespeare, ma per assistere alla Medea di Ronconi, a Così è (se vi pare) di M.Castri o alle varie versioni che dell’Amleto ha fornito Carmelo Bene, valutando uno spettacolo dal suo grado di inventività e di concertazione formale, non certo sul filo della fedeltà o infedeltà allo spirito dell’autore”. In sincrono “d’extrema ratio” con quanto afferma G.Paduano in premessa de “Il teatro Antico”, nell’affermare a suo avviso che “la recensione sistematica delle situazioni tragiche e comiche, è la scelta più adeguata per dare corpo concreto all’universalità che Aristotele assegnava alla poesia (avendo in mente soprattutto la tragedia)”. Problematicità che se vogliamo invise anche i maggiori autori della scena spagnola tra cinquecento e seicento. Da Sant’Ignazio Loyola a Tirso Della Molina e Calderòn Della Barca che sull’onda della comedia nueva di Lope De Vega (debordante alla tragicommedia), ci riporta nell’archetipo del teatro occidentale rappresentato da Don Giovanni, assieme a Faust ed Amleto (dei vari Goldoni e Molière), che in seguito e per mezzo dell’opera di Mozart proietterà il personaggio nel cuore della sensibilità romantica con una contiguità spirituale e speculare appunto tra Faust e Il Don Giovanni.

E se nella Russia futurista e costruttivista di inizio novecento in “ostensione” di grande potenza a gran vocazione agricola così cara del resto al realismo psicologico di I.Turgenev, V.Majakovskij ancorava le sue basi di poeta e cantore autore della rivoluzione d’Ottobre; negli anni cinquanta il Teatro dell’Assurdo di Eugène Ionesco e Samuel Beckett, che richiama al dadaismo con accento cosmopolita, esprime il disagio di un civiltà che ha vissuto drammi prima inimmaginabili, come la Shoah o la bomba atomica (e dove ci si sofferma più su grandi temi esistenziali, come la solitudine, la falsità dei rapporti sociali, la morte, l’insensatezza del vivere l’assurdo appunto), tramite un’ironica messa in discussione del linguaggio e destrutturazione della forma teatrale.

Era il 1967 e per certi versi Jerzy Grotowsky rende definitivamente giustizia nell’alveo della modernità e della contemporaneità (storica) dell’epoca, allo sperimentalismo non solo teorico, di Artaud, riportando in auge così “Il teatro e il suo doppio” (ad oltre una dozzina d’anni dall’oblio e dalla sua morte) tramite un articolo a Lui dedicato (“Non era completamente se stesso”) apparso in Les Temp Modernes, ed in seguito pubblicato anche in “Per un teatro povero” sempre di Grotowsky.

Ridando al contempo in un certo qual senso nuovamente la parola al cantore marsigliese (tra l’altro) dell’invisibile materialità anatomica:

“Il corpo umano è una pila elettrica,

a cui sono state castrate e inibite le scariche,

di cui sono stati orientati verso la vita sessuale

le capacità e gli accenti

per assorbire

tramite i suoi spostamenti voltaici

le disponibilità erranti

dell’infinito del vuoto,

dei buchi di vuoto sempre più smisurati

di una possibilità organica mai colmata”“Il codi una possibilità organica mai colmata”

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