«Barbie e Ken» del Teatro della Fuffa convince il pubblico del Teatro dei Limoni. La bambola della Mattel come Eva-Lilith

by Enrico Ciccarelli

«Barbie e Ken. Riflessioni su una felicità imposta» è lo spettacolo che la Compagnia Teatro della Fuffa ha portato in scena nello scorso fine settimana a Foggia per la stagione Giallo Coraggioso del Teatro dei Limoni (che quest’anno articola il suo cartellone in tre distinti settori: Barbie e Ken appartiene al settore «Propheta»). Lo spettacolo, scritto ben prima che il film di Greta Gerwig sbancasse i botteghini, è frutto di un rapporto a tre. Ma non equivocate, Big Jim non c’entra niente. E non fate pensieri pruriginosi: il riferimento è al sodalizio artistico e creativo instauratosi fra (ordine alfabetico) Letizia Buchini, Filippo Capparella e Saskia Simonet, che lo hanno sviluppato a partire dall’idea di Capparella e allestito in modo davvero convincente.

Barbie e Ken ha infatti trionfato nell’edizione 2022 del Festival Inventaria, conquistando il 50% dei voti delle compagnie teatrali in giuria.

Non si stenta a crederlo, considerata la bellezza del testo, l’intelligente creatività dell’allestimento, con un telo di plastica trasparente che richiama e sublima la confezione delle due bambole più famose della Mattel, l’esemplare professionalità degli attori.

A Santa Monica, Malibu o in qualsiasi altro luogo del globo terracqueo in cui sia collocata la casa dei sogni di Barbie e Ken le cose tra Barbara Millecent Roberts e Kenneth Carson vanno tutt’altro che bene. Il modello di perfezione che sono costretti a incarnare, il sorriso stampato, le allegre corsette e le coreografie ginniche sulle note del Negro Zumbòn, le molteplici competenze e specialità trasfuse loro dal marketing, non bastano a colmare il loro senso di vuoto, a far loro accettare la tautologia in base alla quale sono felici perché sorridono e sorridono perché sono felici.

Non c’è soleggiata partita a tennis (must della famigliola americana felice e realizzata, cfr. Ritorno al futuro), danza romantica, moina affettuosa, che possa superare l’incompiutezza paradossale della loro esemplarità: modelli di tutte le coppie e di tutti gli amori, ma impossibilitati ad agirlo, a viverlo. Una passione senza sesso e senza sensualità, una sciapa sequela di smancerie senza slancio, buone solo a guadagnarsi l’approvazione della calda voce misteriosa che ripete «Oh, yeah!» ad ogni loro ripetizione del mantra della loro inseparabilità. Come nel Giardino, è Barbie-Eva-Lilith il motore della rivolta. È lei a scatenare in Ken il torrente delle inquietudini, a rifiutare la gabbia dorata della felicità imposta. È lei, come sempre, a cogliere il frutto proibito che permette di vedersi nudi, di cogliere il bene ed il male, anziché «vagare una vita da scemo» (cit. Il blasfemo di Faber). Un’interpretazione che ci pare si faccia palese nell’ultima scena, quando Ken e Barbie si mettono a nudo, anche in senso letterale, e diventano gli antichi progenitori della nostra specie, il modello dei modelli del maschile e del femminile, come dice brillantemente Saskia Simonet.

Spettacolo colto, con alcuni dialoghi che sembrano ispirati a Beckett o a Ionesco, e un po’ di Socrate e Kierkegaard che fanno capolino; ma anche spettacolo divertentissimo, visto che la brillantezza del testo è resa ancora più smagliante dalla bravura degli interpreti. La grazia e la padronanza con cui Letizia Buchini si muove fra l’inespressività patinata della bambola e la tormentata ricerca della donna sono davvero da applausi. Quanto a Filippo Capparella, compie gesti scenici non facili con impressionante disinvoltura ed è magistrale nell’esilarante happening in cui Ken coinvolge il pubblico nella richiesta di informazioni su come si faccia a soddisfare i desideri di Barbie per «quella cosa là». Apprezzamento ulteriormente accresciuto dal fatto che hanno entrambi meno di trent’anni, benché sembrino consumati veterani del palcoscenico.

In conclusione, lo spettacolo dimostra come si possa mettere in scena una critica senza sconti ai modelli sessisti della nostra convivenza senza cadere nel predicatorio, senza pretese di ammaestramento e senza fumisterie ideologiche, con la pura forza delle idee e degli argomenti. Sui loro profili social i tre autori hanno espresso soddisfazione per la buona riuscita delle serate foggiane; per parte nostra siamo sicuri che sentiremo ancora parlare di questo spettacolo e di questi tre giovani (Simonet, la più «anziana», ha solo trent’anni) artisti. E possiamo garantire che ci hanno procurato, insieme alla lungimiranza del Teatro dei Limoni, una felicità niente affatto imposta. A ben rivedervi, fuffari.

Nel video le interviste a Buchini, Capparella e Simonet

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