Come il teatro ci salva la vita: l’immenso Eduardo, il Lirico di Milano, Ale&Franz e la Piccola Compagnia Impertinente

by Enrico Ciccarelli

Uno dei rari privilegi collegati alla professione di giornalista è quello di essere costantemente in contatto con un certo numero di accadimenti, eventi e memorie diversi fra loro, e proprio per questo collegabili in modo inaspettato. Mi è accaduto quindi in pochi giorni di documentarmi sullo spettacolo di Ale&Franz “Comincium” (nel video la mia intervista ai due bravissimi e disponibilissimi attori, con cui ho avuto anche il piacere di intrattenermi nell’incontro con il pubblico alla Sala Fedora) e apprendere che con questo spettacolo era stato riaperto dopo più di vent’anni il Teatro Lirico di Milano, oggi intitolato a Giorgio Gaber. Qualche giorno prima avevo assistito, al Piccolo Teatro Impertinente, alla messa in scena di Fine esami mai, una riproposta curata da Pierluigi Bevilacqua dell’ultima commedia di Eduardo De Filippo, Gli esami non finiscono mai. Queste cose prive di apparenti nessi si sono fuse con la mia ormai affollata memoria e hanno fatto risalire dallo sgabuzzino un ricordo lontano, di quarant’anni fa e passa. 

Perché Eduardo, l’immenso Eduardo scelse proprio il Lirico di Milano per festeggiare il suo ottantesimo compleanno, lui che era napoletano planetario, abituato a modificare la sua lingua e la sua mimica a seconda che si trovasse al Teatro San Ferdinando, casa sua, o a quello della Pergola a Firenze, o al Piccolo Eliseo di via Nazionale a Roma o a Trieste o al Duse di Bologna. E volle celebrare una vita nata e trascorsa in teatro al modo dei teatranti: con uno spettacolo.

Chiese ai più celebrati attori e alle più celebrate attrici d’Italia di recitare in quell’occasione qualche cosa di suo. Al richiamo del Re accorsero tutti i principi del palcoscenico o del set: da Gigi Proietti a Vittorio Gassmann, da Monica Vitti a Marcello Mastroianni. La Rai non poteva certo lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione. Sicché, non ancora nati i maxischermi, l’alta definizione e gli Oled, i vecchi e borbottanti tubi catodici sciorinarono per le famiglie italiane questo evento teatrale inconsueto, irripetibile, irripetuto.

Per chi come me adorava Eduardo fu un’orgia degna del Paese di Cuccagna: brani dialogati, monologhi, poesie… La Cantata dei Giorni Pari e quella dei Giorni Dispari frammiste in un florilegio magnifico, con la televisione ancella all’ineffabile magia del teatro e dei suoi massimi profeti. E dopo due ore di tanta magnificenza arrivò lui.

Dovete pensare che il palco del Lirico, nato per ospitare manifestazioni colossali, è immenso. E in esso, solo, c’era quest’omino bianco di antica neve, con la camicia bianca, i pantaloni retti dalle bretelle e la coppola che furono negli ultimi anni il suo quasi esclusivo abbigliamento (lo stesso con cui lo avevo ammirato al Palasport di Bologna nell’indimenticabile tournée con Carmelo Bene).  

Una figuretta piccola piccola e sola, mentre la scena svuotata comprendeva soltanto una sedia priva di qualsiasi solennità. Eduardo ringraziava, con quella sublime capacità di tenere le mani esattamente dove devono essere che differenzia gli attori –e i grandi attori- da noi comuni mortali. E ringraziava con quella voce lievemente stridula che conosce a memoria chiunque abbia mai visto almeno una volta nella vita Natale in casa Cupiello.

Ed ecco che questo ottuagenario venuto a ringraziare chi aveva in suo onore ridato scena e fisicità alle sue parole di sei decenni e più, si mette a parlare di un’altra attrice, che non aveva potuto esserci, quella sera, essendo mancata diciassette anni prima. Annunziata De Filippo, detta Titina, la maggiore dei tre figli illegittimi di Eduardo Scarpetta,

«Mia sorella Titina è stata molto importante nella mia vita e nella mia carriera, e per lei ho scritto Filomena Marturano» diceva l’omino nel palcoscenico deserto «e questa sera volevo per l’ultima volta recitare con lei, per voi, la scena finale di quella commedia, che è tra le mie più famose».

A quel punto non credo volasse più un fiato nel Lirico. Anche io, distante trattenevo il respiro davanti allo schermo. Perché l’omino, di colpo fattosi sciamano, fattucchiere, incantatore, cominciò a recitare quel testo che conoscevo benissimo interpretando don Mimì Soriano e dialogando con la voce incisa di Titina-Filomena che si sedeva stanca sulla sedia (ed è indicibile e inspiegabile alla cultura audiovisuale dell’oggi come le mani di Eduardo disegnassero nell’aria e nel nulla un corpo preciso, come quella voce divenisse essere d’aria, pneuma, fantasma.

Fantasmi, sì. Il teatro è essenzialmente questo, e lo è soprattutto quello realistico e medioborghese di Eduardo. Ricordate? «No, professò, i fantasmi non esistono. Siamo noi i fantasmi…» Così il grande attore parlava e rievocava gli spettri, li faceva presenti (cos’altro credete che significhi rappresentazione?) per dirci, per dire a tutti di essere pronto a raggiungerli, a divenire egli stesso un fantasma (succederà quattro anni dopo, a Roma). E al modo del teatro ci ricordava che anche in noi i fantasmi si sarebbero fatti via via più presenti, che la nostra scena si sarebbe fatta progressivamente più povera e desolata, che sarebbe rimasta una luce sempre più circoscritta contornata da una vasta dimensione di buio che prima o poi ci avrebbe ghermito.

Non dimenticherò mai quel momento di teatro ineguagliabile: ricordava la pervasività senza rimedio della morte e al tempo stesso ne proclamava la sconfitta. Perché finché ci sarà un teatro, finché le voci e le parole dei grandi potranno essere ripetute (cambiate, reinterpretate, rivissute) nessuno sarà mai davvero morto del tutto. E basterà un incrocio casuale di date, di nomi, di memorie, a renderlo vivo e presente. Grazie, Caso benevolo. Grazie, Sommo Maestro. Grazie, teatro.

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