Con il vostro irridente silenzio, Fabrizio Gifuni e le lettere di Aldo Moro

by Claudia Pellicano

Il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse sequestrano Aldo Moro nel corso di una retata che conduce all’uccisione dei cinque agenti della scorta. Dopo cinquantacinque giorni di prigionia, il Presidente della Democrazia Cristiana seguirà la stessa sorte, un epilogo che, come scrive Miguel Gotor, né le inchieste giudiziarie né le interpretazioni politiche riescono a demistificare in modo convincente agli occhi dei parenti delle vittime e di una parte ragguardevole dell’opinione pubblica italiana.

Il rapimento avviene alla vigilia della nascita del Governo che avrebbe goduto del sostegno del PCI e che Moro si è fortemente adoperato a costituireLo scopo dei terroristi è di carpire il maggior numero di informazioni, incrinare la reputazione dell’ostaggio, e destabilizzare il contesto politico-istituzionale; la tattica, quella di esacerbare le divisioni tra partito della fermezza e partito della trattativa e, rimettendo ogni responsabilità allo Stato, ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere. Con l’assassinio di Moro le BR, sostanzialmente,arrestano il piano politico di rinnovamento prefigurato dal Presidente della DC.

Di quella prigionia rimane un corpus di scritti contenenti le riflessioni e le risposte che lo statista rende durante l’interrogatorio effettuato dal capo delle BR Mario Moretti. La maggior parte del Memoriale non viene divulgato durante il sequestro: delle novantasette missive del politico democristiano soltanto otto vengono diffuse in quei giorni, missive che, come pianificato dalle Brigate Rosse, suscitano un’eco mediatica formidabile. I rapitori scelgono di far pervenire- privatamente o pubblicamente- o dismettere le comunicazioni a seconda dell’utilità alla causa terroristica. Altri dattiloscritti sono recuperati nel corso di un’ispezione presso il covo delle BR in via Monte Nevoso a Milano nel 1978. Le copie restanti, la maggior parte, vengono rinvenute casualmente nel 1990 per via di alcuni lavori di ristrutturazione nello stesso appartamento di Milano.

Dalle carte emerge un uomo stupito, amareggiato, rattristato dalla mancanza di coraggio civile da parte della DC: «avevo la sensazione di avervi in qualche modo liberato e che io costituissi un peso per voi non per il fatto di non esserci, ma piuttosto per il fatto di esserci».
Crede che l’unica via d’uscita possibile sia uno scambio di prigionieri attraverso la mediazione della Santa Sede e spera che a un’astratta ragione di Stato si sostituisca la ratio della necessità e dei criteri umanitari. Rimprovera ai colleghi di partito la linea dura con le BR, ed è sorpreso da un rigore reso tanto più inverosimile dal fatto di essere adottato in un Paese poco ferreo come l’Italia. Nella lettera a Francesco Cossiga recapitata il 29 marzo si legge:
«Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurli a salvarli, è inammissibile».
Moro è ansioso, oltre che per la propria sorte, per quella del Paese e per il futuro della DC. Sente di essere stato ucciso tre volte, «per insufficiente protezione, per rifiuto della trattativa, per la politica inconcludente, ma che in questi giorni ha eccitato l’animo di coloro che mi detengono». Scrive di sentirsi abbandonato dai colleghi di partito, senso di abbandono fomentato dalle menzogne delle BR.

Ribadisce di essere «intatto e in perfetta lucidità», di scrivere senza la minima coercizione e che non c’è alcuna comunanza di vedute tra lui e le BR. L’attendibilità delle parole di Moro viene messa ampiamente in discussione, si dice che abbia perso la testa, che non sia in sé, che sia vittima della sindrome di Stoccolma. Ma è proprio la scrittura lo spazio della sanità, della ragione, della sopravvivenza:

«Scrivo con il mio stile, per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio […] Moro insomma non è Moro… Per qualcuno la ragione di dubbio è nella calligrafia, incerta, tremolante, con un’oscillante tenuta delle righe. Il rilievo è ridicolo, se non provocatorio. Pensa qualcuno che io mi trovi in un comodo e attrezzato ufficio ministeriale o di partito? Io sono, sia ben chiaro, un prigioniero politico ed accetto senza la minima riserva, senza né pensiero, né un gesto di impazienza, la mia condizione. Pretendere, però, in queste circostanze grafie cristalline e ordinate e magari lo sforzo di una copiatura, significa essere fuori della realtà delle cose».

Le ultime dichiarazioni dimostrano tutta la consapevolezza e feroce lucidità del Presidente della DC, ma il dibattito sull’autenticità delle lettere è funzionale a sminuire il potere minatorio delle BR. La cosiddetta linea della fermezza, che privilegia l’ipotesi di non attendibilità delle carte, prescrive di non trattare con i sequestratori, di non riconoscerli come interlocutori, e di non cedere al ricatto. Ma la realtà delle cose è molto più complessa della retorica ufficiale che vuole il Paese diviso in sostenitori della linea rigorista o della trattativa.

Miguel Gotor scrive che l’Italia ha imboccato le varie strade della semplificazione, della negazione, o di una più o meno deliberata confusione per consentire, fondamentalmente, la sopravvivenza politica e personale alla maggioranza dei protagonisti e dei responsabili della vicenda Moro. Allora in un Paese che privilegia la via della rimozione, l’esercizio della memoria è particolarmente importante. È una forma di giustizia, un meteorite incandescente che porta ancora con sé gli strascichi del passato; che, come racconta Fabrizio Gifuni nel suo ultimo spettacolo, ha il merito di riportare l’attenzione su dei contenuti a lungo delegittimati e per troppo tempo dismessi. Con il vostro irridente silenzio è l’accorato passaggio di una delle lettere nelle quali Moro esibisce tutto il suo avvilimento per lo scetticismo e l’abbandono che avverte dalla politica, dalla stampa e dall’opinione pubblica: «Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

Il passato non è morto. Non è mai nemmeno passato.

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