Elena Miglietti con il pink power di Barbie e il leggendario Richard Galliano protagonisti del terzultimo appuntamento di Musica Civica 2023

by Enrico Ciccarelli

La bellezza di assistere agli spettacoli del cartellone di Musica Civica, la fortunata rassegna di musica e parole ideata da Dino De Palma e Gianna Fratta, sta nella sua sorprendente varietà. Quando entra al Teatro «Giordano», tradizionale nido della manifestazione, il pubblico di Foggia non sa mai bene cosa aspettarsi, quale settore dello scibile sarà oggetto della comunicazione, quali pagine della storia della musica saranno indagate, eseguite o reinterpretate. Quest’anno siamo passati dal grande cineasta al cantautore, dai virtuosi ai filologi, dal divo pop alle orchestre e ai solisti. Non ha fatto eccezione il terzultimo appuntamento (la XIV edizione ha schedulato ben dieci appuntamenti, due più del solito, tra fine settembre e seconda metà di dicembre: una maratona dai ritmi serrati) che ha visto protagonisti Elena Miglietti, giornalista e scrittrice, docente della Scuola Holden di Torino, e il leggendario fisarmonicista francese di origine italiana Richard Galliano.

Miglietti, che è una docente di corporate storytelling (in estrema approssimazione, la costruzione narrativa delle aziende e dei loro prodotti), tiene nel capoluogo piemontese un corso (e da noi ha svolto una comunicazione) su Barbie come modello di empowerment femminile. Per chi ha vissuto un’adolescenza sessantottina, in cui si pretendeva di non farti bere Coca-Cola per evitarti di essere complice del bieco imperialismo americano, è un po’ come se il Papa si mettesse a tessere l’elogio delle messe nere.

Sì perché Miglietti è una femminista di quelle toste, collaboratrice di GIULiA (Giornaliste Unite Libere Autonome), associazione che fra le altre cose si batte da anni contro l’utilizzo degli stereotipi di genere nel linguaggio giornalistico. Una che non fa sconti al patriarcato, impegnata per i diritti civili e per la legalità e in generale dalla parte degli oppressi. Come fa a difendere il sogno platinato e plastificato dell’American Way of Life, la bionda longilinea che è apparentemente il prototipo della donna-oggetto? Semplice: perché sa che conoscere è più importante che giudicare, e conoscendo e studiando ha concluso che non è così. Il bello è che ci ha convinto.

Sì, perché Barbie, presentata ufficialmente il 9 marzo del 1959 (sotto il segno dei Pesci, et pour cause!), non è una bambola qualunque. Non lo è nei materiali, visto che è fatta di vinile, e non di cartapesta e ceramica, e soprattutto visto che ha diciassette anni alla nascita, cioè non è una bambina, un bambolotto alla Cicciobello. Non è il pupazzo sul quale le bambine devono addestrarsi alla loro carriera di mammine e caregiver fin dalla più tenera età, ma una giovane donna in cui rispecchiarsi e a cui aspirare, autonoma e indipendente, che fin dagli anni Sessanta viene declinata in vesti impensabili, a cominciare da quella di cosmonauta. Abiti nuziali finché si vuole, ma solo come indossatrice; perché lei non si sposerà mai, nemmeno con il dolce e atletico Ken.

Il mantra di Barbie (che non casualmente deriva da Lilli, una bambola svizzera che non era un giocattolo, ma una specie di soprammobile per adulti) è «se puoi sognarlo, puoi esserlo», il messaggio che lancia alle bambine che la adorano è «diventa chi vuoi», da medica a insegnante, da esploratrice a surfista, da docente a presidente degli Stati Uniti (nel mondo Mattel ci è già riuscita sei volte; per il mondo reale, citofonare Hillary Clinton). Un’epopea diventata un prodigio di marketing, che accompagna il sommovimento sociale che negli Stati Uniti porta le donne della superpotenza a livelli di emancipazione e protagonismo che faranno da punto di riferimento per l’intero Occidente.

Una storia di donne per donne, agita da donne. La creatrice di Barbie, Ruth Handler, che diede alle sue bambole il nome dei suoi figli, Barbara e Kenneth, era la moglie del cofondatore della Mattel Elliot Handler, e chiese per sé e la sua bambola un ramo d’azienda, che sarà animato da altre donne straordinarie, con idee e intuizioni di enorme efficacia e successo.

Miglietti racconta questa sfaccettata e straordinaria storia occidentale con il rigore documentario di una docente e il brio di un’entertainer, con una tale linearità che il vostro affezionatissimo giornalista diversamente capace sarebbe tentato di mettere in rete l’intervista che ha realizzato con lei anche se per pasticciona imperizia non ne ha registrato l’audio. La collega è così espressiva che probabilmente si capirebbe lo stesso.

Subito dopo è stata la volta di Sua Maestà Richard Galliano e della sua fisarmonica. Uno strumento antichissimo nei suoi princìpi (sarebbe stato ideato addirittura in Cina due millenni e mezzo prima di Cristo) che però è giunto alla sua forma attuale soltanto di recente, agli inizi del XX secolo. È uno strumento che realizza una sorta di rapporto simbiotico con il suo strumentista, che ne muove il mantice con entrambe le braccia mentre le sue dita corrono sulla bottoniera.

Il musicista francese, di trasparenti origini italiane, è solo sul palco nudo, in questo amplesso armonico di solista dalla potenza orchestrale. Per ascoltarlo il modo più adeguato è chiudere gli occhi e trovarsi a Parigi, e un attimo dopo catapultati in Argentina. Lui è la fisarmonica. Le dita scorrono veloci in questo vortice di abbracci. La stringe con un movimento forte ma delicato che trattiene il fiato, poi esplode e si apre in una danza perfetta. L’avvolge dolcemente e la domina, «strappa un sorriso di tregua ad ogni accordo mentre fa dannare le sue dita», proprio come dice Paolo Conte «alle prese con una verde milonga».

Sì, c’è tanta Argentina, tanto Piazzolla, tanta Buenos Aires. Ma nel concerto le passioni latinoamericane risalgono le scale di Montmartre e i suoi ritrovi fumosi, le guinguettes sulla Senna e i bistrot del Quartiere Latino, con l’evocazione degli immortali chansonnier di Parigi e della suprema Edith Piaf (di cui Galliano esegue diversi brani). E poi il cinema, con «Moon River», in cui Richard sembra portare sul palco il viso bellissimo e magro e gli occhi da cerbiatto di Audrey Hepburn in «Colazione da Tiffany». E tanto altro ancora, con un magistrale «My Funny Valentine» che Galliano, probabilmente memore delle diverse collaborazioni con Chet Baker, non esegue alla fisarmonica, ma con un piccolo strumento a fiato vagamente simile a un’ocarina. Come sempre a Musica Civica, nessuna nota stonata. Almeno, non sul palco. Perché purtroppo si è costretti a sottolineare il fastidioso chiacchiericcio che ha accompagnato più di un brano. E soprattutto il fatto che a questo grandissimo artista che non per la prima volta ha onorato Foggia non sia stato richiesto il bis (e certo non per mancato gradimento, visti i copiosi applausi che hanno accompagnato l’esibizione). Vero è che il concerto è stato ricco ed esaustivo, e che i tempi si sono protratti oltre le abitudini; ma perdersi altri cinque minuti di magia non ci è sembrata una gran mossa. Cosa avevate di più importante da fare, care spettatrici e cari spettatori?

Ha collaborato Valentina Chiango

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