Gabriele Lavia legge Oscar Wilde al Vascello. «A teatro bisogna darsi in pegno per performare una narrazione»

by Claudia Pellicano

Nello studio di Gabriele Lavia c’è un libro che sporge un po’ da uno scaffale, un segno, quasi un invito a prendere e condividere con il pubblico le storie di un poeta magnifico come Oscar Wilde.

È con le favole dello scrittore di Dublino che il teatro Vascello riapre i battenti dopo la lunga chiusura dovuta alla pandemia; racconti bellissimi e drammatici, in cui tutto sembra la versione corrotta del ritratto di Dorian Gray e che, per un pirandelliano senso del contrario che possiedono i siciliani, Lavia comincia a leggere dalla fine. Il figlio delle stelle dovrà superare molte prove prima di riscattarsi, e Il principe felice non sopravviverà al proprio sacrificio.

Perché le favole di Wilde hanno una connotazione così tragica?

Wilde racconta semplicemente di discriminazioni, che non hanno un lieto fine. Il principe felice si spoglia di tutto, si cava gli occhi, gli si spezza il cuore, vuoi per la stanchezza, vuoi per il dolore, perché il mondo è pieno di poveri, di gente che soffre, che si sacrifica completamente, come la rondine che fa da tramite tra lui e gli altri. Alla fine, Dio chiede a un angelo di dirgli la cosa più bella che abbia visto sulla terra, l’angelo gli racconta della rondine e del principe che si è spogliato di tutto, Dio ne è contento, e accoglie lassù il cuore del principe e la rondine morta. Verrebbe da chiedersi perché Dio, nella sua infinita giustizia, non ci abbia pensato prima, perché non abbia fatto sì che i poveri non siano poveri, i ricchi un po’ meno ricchi, e i malvagi un po’ meno malvagi- non del tutto, ma un po’ meno. C’è sempre questa ironia, quest’amarezza, questa laicità della sofferenza.

Anche Il figlio delle stelle deve superare tante prove per tornare, finalmente, a essere come prima, bello- perché se sei bello dentro, sei bello fuori- e, alla fine, comunque muore. Diventa un re saggio, ma scompare dopo un anno di regno, e gli subentra un altro cattivissimo.

In tutto questo, la sofferenza ha un senso?

Non ha un senso. Non c’è santità nella sofferenza. È solo un dolore, non è giusto che qualcuno soffra. Non ricordo quale filosofo, credo Diderot o Rousseau, abbia detto che basta un piccolo palpito di dolore nel mondo per mettere in crisi tutta la creazione di Dio

Se il teatro è uno specchio, una presa di coscienza, perché tanti lo vivono in modo distante?

Lo specchio, naturalmente, è una grande metafora, un’immagine molto complessa, che nasce da tre grandi miti: nel mito dello specchio, del riconoscimento di sé, Narciso si riconosce in un lago immobile, senza increspature, senza che intorno ci sia alcune partecipazione. Sei solo con la tua immagine riflessa, acquisisci un senso di te, è una forma quasi narcotica. In questa presa di coscienza, Narciso si trasforma in un fiore che è, in realtà, un narcotico. Questo è il primo mito dello specchio, secondo me il più importante. Poi c’è il mito di Perseo, il quale guarda nello specchio tondo che è il suo scudo e vede il terrore, Medusa riflessa, soi-même, sé stesso. Deve tagliare la testa al terrore, accettarsi, e andare avanti con la coscienza di essere lui il terrore di sé stesso. Il terzo mito è quello di Dioniso, per il quale lo specchio è una trappola dei titani; comincia a giocherellare con sé stesso finché, alla fine, la madre terra emette un muggito di vacca in calore, lui, per un istante, si ferma, e i titani lo fanno a pezzi. Apollo lo colloca su un altare, arrivano i pastori che cominciano a cantare le lodi, di lì il trágos, la tragedia. Nasce il teatro così come lo conosciamo, Dioniso è il mito risolutivo, ci dice che sul palcoscenico noi riuniamo, alla luce di Apollo, i pezzi scombinati dell’umanità in un solo Dioniso. Lì, il pubblico, si riconosce. Viene ripreso anche dal cristianesimo: il mito della nascita di Cristo e della morte di Dioniso sono uguali.

Il mito del teatro è difficile, molto complesso, non è necessario conoscerlo per andare a teatro, ma molti sono di-stratti, perché bisogna impegnarsi, che vuol dire darsi in pegno. È più facile qualcosa in cui non ci si deve dare in pegno. A teatro, invece, bisogna darsi in pegno per performare una narrazione che si modifica sempre a seconda di come tu, spettatore, sei. Il cinema, che è un’altra forma d’arte simile alla pittura, non si modifica, e quindi non richiede che tu ti dia in pegno. Se lo vuoi partecipare, puoi farlo, ma in una solitudine assoluta. Il teatro no, ha bisogno dell’essere con, uno con l’opera.

Oscar Wilde diceva che nessun artista è mai morboso: può spiegarci più in dettaglio che significa?

L’arte non è mai morbosa, nella vita un individuo può essere morboso, mi auguro per lui che lo sia. Probabilmente la vita è un morbo, per cui perché noi non dovremmo essere morbosi? È bello essere gelosi, cattivi, invidiosi, pigri- qualunque cosa, in fondo, con moderazione. Stanotte, in televisione, c’era un processo a un camorrista e, come testimoni, erano presenti altri camorristi. Ho acceso nel momento in cui dichiarava di aver ucciso quarantasette persone, un fatto per lui normale, un lavoro per conto di un boss.

A me sembra che, oltre al teatro, le persone siano un mistero.

Il teatro è un mistero, le persone non lo sono. Il mistero, per le persone, è che non siano un mistero. Sono banali. C’è una sola cosa che conta, l’amore, il resto non conta nulla.

Il teatro sopravviverà a qualunque cosa?

Il teatro non può morire. Non succederà mai.

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