God save the Lemons. Ventidue anni di sapiente follia con Pinter e i sette peccati capitali

by Enrico Ciccarelli

Il Teatro dei Limoni, la prima in ordine di tempo delle realtà drammaturgiche foggiane a dotarsi di un proprio spazio (il piccolo e accogliere teatro di via Giardino), compie ventidue anni, essendo nato all’alba del nuovo millennio, nel 2001. E siccome il 22 è, nella smorfia napoletana il numero che simboleggia «’o pazzo» non c’è migliore occasione per rendere omaggio a questi fous savants che da più di due decenni producono coraggio.

Sì, non si tratta solo del fatto che il loro cartellone si chiama fin dall’inizio «Giallo coraggioso» e nemmeno soltanto del normale ardimento richiesto a tutte le anime salve che provano a inseminare e far fiorire una terra spesso ingrata e arida. È un piacere dell’osare e del cimento, dell’andare oltre. E se Maggie Salice e Roberto Galano ne sono in qualche modo gli eroi eponimi, è impossibile dimenticare i vari Leonardo Losavio, Giuseppe Rascio, Francesca De Sandoli, Paola Capuano, Roberto Moretto, né i talenti, sbocciati come Chiara Giannetta o in gemmazione come Christian Di Furia, Qualunque elenco sarebbe fatalmente segnato dall’omissione, e dalla dimenticanza, ma un fatto è certo: esiste un’idea platonica della limonità, un tratto caratteristico dell’appartenenza a questa avventura che consiste in una quasi sfrontata capacità di mettersi in gioco, di essere «sfidanti» nei confronti del contesto e di se stessi.

Si tratti del Festival NU.D.I. (Nuove Drammaturgie Indipendenti) o degli spettacoli agiti dallo spettatore in cammino nei diversi ambienti, delle rappresentazioni «site specific», cioè rimodulate e portate in scena in ambienti non teatrali e tutt’altro che canonici, il Teatro dei Limoni non si tira indietro. Teatro di parola, gestuale, di movimento, mise en scene di autori celeberrimi, a cominciare dal Bardo, fino a perfetti sconosciuti, drammi foschi o allestimenti ridanciani, non c’è territorio con cui non si cimentino. Con le normali alterne fortune, qualche occasionale defaillance e una dose massiccia di quella che a Napoli si chiamerebbe «cazzimma» e noi umilmente tradurremo con «capatostaggine».

Ne è un esempio il Teatro Danza, che la leggiadra Maggie Salice ha voluto, imposto e costruito con una determinazione da fare invidia a Dolores Ibarruri, la pasionaria. Se aveste assistito, verso la fine di maggio, a «Seven», il saggio finale rappresentato a via Giardino, sapreste perché. Avreste visto ad esempio quattro ragazze (Graziana Cifarelli, Maria Cocco, Elisabetta Campanella e Nicole Piemontese) eseguire un balletto di mostruosa difficolta mantenendo sincronie difficili anche per delle professioniste consumate. Con loro Francesca De Luca, Simona Frascaria, Sabrina Rigillo, Rossella Salerni, Valeria Spadaccino e i danzattori Tommaso Bevilacqua, Marco Dragoni, Raul Lannunziata, Yuri Longo, Luca Monacis, Roberto Rosiello, Luigi Schiavone e Angelo Varano.

Ora, fermo restando che l’abilità coreutica di chi scrive è grosso modo quella di un orso bruno di taglia medio-piccola, mi sono sembrati tutti molto bravi e soprattutto molto omogenei, pronti ad aiutarsi gli uni con gli altri (se credete che il mondo dello spettacolo sia fatto per i narcisi, vi consiglio di rivedere le vostre posizioni). Una cosa del tutto inattesa, ove si consideri che non sono tutti allo stesso anno di corso. Una prova dell’ottimo lavoro di Maggie, ma anche di Giada Ordine, della scuola di Danza «Tersicore», che ha insegnato elementi di tecnica contemporanea, di Francesca Di Molfetta, docente di training biomeccanico posturale, Alessandro Gambino, di Contrology Studio, che ha torturato allieve e allievi con il Pilates, per non parlare dei visiting professor Giorgia Maddamma, che ha insegnato Tecnica Limòn (non è un gioco di parole; è il nome di un celeberrimo coreografo messicano) e Fernando Suels Mendoza, che ha dato vita a uno splendido laboratorio coreografico.

Ne è risultato un magnifico viaggio fra accidia, ira, gola, lussuria, superbia, avarizia e invidia, con elegante redenzione finale: una colonna sonora azzeccata ed eclettica, aperta dalla maestosa Dance Macabre di Saint-Saëns, che ha permesso agli allievi di mostrar l’esser loro su più ritmi e generi. Davvero brave, davvero bravi.

Non stupirà ritrovare diversi dei nomi appena citati nella recensione di «Harold», il saggio del corso avanzato di Teatro, andato in scena lunedì scorso, 26 giugno. Harold è naturalmente Harold Pinter, il gigante della seconda generazione di quello che viene chiamato «Teatro dell’assurdo». Meno incubico (ma proprio per questo più inquietante) del suo maestro Samuel Beckett, meno sarcastico di Eugène Ionesco, Pinter (come Shakesperare e pochi altri) è uno di quei tizi che il teatro lo hanno cambiato per sempre. C’è un prima e c’è un dopo di lui. Il fatto che abbia vinto il Premio Nobel solo otto anni dopo Dario Fo (che per me –scusate l’irriverenza- è come se otto anni prima di dare il Nobel a Montale lo avessero dato a Fabio Volo) oltre a testimoniare le precarie diottrie della Regia Accademia di Stoccolma, significa anche che probabilmente siamo assai lontani dall’averlo compreso e digerito.

Lasciando perdere le anticaglie delle unità aristoteliche, Pinter è uno che irride le convenzioni del prima e del dopo: la prima scena di un suo dramma può essere l’ultima della vicenda che narra (è così in quel capolavoro assoluto che è «Tradimenti»), lo scioglimento drammatico dell’ultima scena può essere il preludio alla prima cui abbiamo assistito, e non necessariamente la comparsa di un personaggio in scena significherà un suo peso specifico nella vicenda, né che il suo protagonista assoluto non possa essere un’assenza incombente. È un autore del tormento e dell’inquietudine (non per caso alcune sue opere vengono chiamate «commedie della minaccia», imprescindibile come certe opere di Kafka e certe canzoni di Bob Dylan.

È che fa, Roberto Galano, con un autore così duro, difficile e urticante? Costruisce un «meta-Pinter», ossia un testo inesistente, ma quanto mai pinteriano (anzi, «pinteresque» per usare l’aggettivo con cui i critici ne attestano l’unicità), fatto com’è di dialoghi disincarnati presi, senza alcuna modifica da ben tredici opere dell’autore londinese. Un collage di sentimenti sotto ghiaccio, di parole disperate e dissimulatrici, affidati a personaggi rinchiusi in un interno-locanda assai britannico. Una di quelle idee del menga che finiscono per rivelarsi una figata pazzesca. Regia rigorosa e magnifica punteggiatura di interludi per farci informati che si passa da un’opera all’altra, e dodici interpreti_ Letizia Amoreo, Elisabetta Campanella, Graziana Cifarelli, Stefano Dragoni, Vincenzo Ficarelli, Francesco Giordano,  Stefano Graziani, Raul Lannunziata, Gabriella Paolicelli, Luigi Papa, Nicole Piemontese, Cristiano Russo. Cinque ragazze e sette ragazzi dai tempi scenici esemplari, fra i quali è davvero difficile distinguere chi particolarmente eccella.

Da affezionato frequentatore di via Giardino mi piace sottolineare, accanto alle molte conferme, la brillantezza dei due caratteristi (Eduardo diceva che la difficoltà di un ruolo è inversamente proporzionale al numero di battute che ha il personaggio) Gabriella Paolicelli e Luigi Papa (bravissimo nella versione esilarante del drammaticissimo «Victoria Station»), e le buone prove di Elisabetta Campanella, che credo sia la più giovane del gruppo, e soprattutto di Vincenzo Ficarelli, da applausi a scena aperta per la credibilità che conferisce al personaggio di Aston, inserviente ritardato e tenace nelle sue osservazioni. Quanto a Graziana Cifarelli, tutte le volte in cui la vedo recitare mi stupisco che non sia ancora stata protagonista di un blockbuster o di un film d’autore.

Lo so, questo articolo è troppo lungo, come accade spesso quando si scrivono cose che si ha piacere a scrivere. Il fatto è che sono poche le cose che mi inducono a superare la barriera d’ombra calata sui miei occhi. Così, quando capita, cerco di approfittarne. Fare gli auguri al ventiduenne Teatro dei Limoni, con l’augurio che la struttura di via Giardino sia loro conservata, è una di queste cose. Già, perché, non c’è solo la smorfia. Nella numerologia cabalistica il 22, numero maestro, indica il valore della creazione. Creazione di testi, di spettacoli, di sogni. Cento di questi anni, cari impagabili e pazzi Limoni di via Giardino.

N.B. Le foto di Harold sono di Monica Carbosiero. Quella di Seven è mia (e purtroppo si vede)

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.