‘Il berretto a sonagli’ di Luigi Pirandello: la folle integrazione come rivincita nei confronti della società

by Germana Zappatore

Nell’estate del 1918, con il titolo “Il berretto a sonagli”, Luigi Pirandello mette in scena la traduzione italiana della commedia dialettale in due atti “‘A birritta cu ‘i ciancianeddi”. Il protagonista è Ciampa, umile ma rispettabile scrivano che rischia di vedersi crollare il mondo addosso quando la signora Beatrice (moglie del suo capo) va a denunciare la tresca extraconiugale del marito con la moglie dello stesso Ciampa. Per evitare lo scandalo è proprio lo scrivano a trovare la soluzione che viene accettata da tutti: Beatrice deve fingere di essere pazza così che la gente non creda alla tresca da lei denunciata e allo stesso tempo non venga screditata l’onorabilità delle famiglie.

I pazzi qui, in realtà, sono due: oltre alla (finta) follia di Beatrice, c’è anche quella (vera) di Ciampa. Lo scrivano, però, non è il classico outsider pirandelliano che compie un gesto eclatante per ribellarsi alla società di cui non condivide la logica. Al contrario, Ciampa è un personaggio che si è ben integrato, ma la sua integrazione non è altro che un modo (folle) di prendersi una rivincita nei confronti della vita che non è stata proprio clemente con lui. Una vita che gli ha dato in sorte una moglie fedifraga e una passione per il giornalismo che urta contro la gretta piccolezza di chi lo circonda. E così lui, per riscattarsi da questa condizione di doppia inferiorità sociale, decide di accettare la logica delle convenzioni borghesi e i ruoli stabiliti dalla società indossando la maschera di irreprensibile lavoratore (fa lo scrivano per l’uomo che ha una relazione con la moglie) e marito rispettabile (nasconde a se stesso e agli altri la tresca della consorte). Per chi lo circonda, però, lui è un tipo strano e non soltanto perché ha “occhi pazzeschi” (da pazzo) e perché usa un linguaggio allusivo spesso incomprensibile fatto di proverbi e sentenze attinte al repertorio evangelico, ma anche a causa del rigore quasi maniacale con cui si è adattato alla vita da “pupo” rispettabile e onesto. Insomma, la vita di Ciampa scorre secondo i principi del tempo: tutto è permesso purché si salvino le apparenze.

Qundi il dramma arriva quando quelle apparenze rischiano di essere smascherate, cioè quando Beatrice denuncia i due amanti. A quel punto a Ciampa lo stonato sembrerebbe rimanere una sola soluzione, il delitto d’onore. Ma questo significherebbe ammettere l’adulterio e dismettere i panni di pupo rispettabile per indossare il berretto a sonagli da becco (quello da folle gli è già stato messo sul capo da tempo). E a Ciampa ovviamente questa risoluzione non piace affatto. E allora, come un novello servus malus di plautina memoria, proprio Ciampa risolve la questione con astuzia e facendo sì che le apparenze vengano tutelate in una sorta di amaro e moderno “e vissero tutti felici e contenti”. O quasi.

Dal momento che la “corda civile” è saltata e non si riesce a girare quella “seria”, non resta che sferrare “la corda pazza”. Il protagonista organizza un vero e proprio teatro nel teatro istruendo Beatrice a fare la pazza. “Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede e tutti la prendono per pazza” dice Ciampa a Beatrice. Insomma, se la donna fingerà che l’adulterio sia solo il frutto della sua folle gelosia (tra l’altro lei non ha mai colto sul fatto i due amanti, e il delegato Spanò ha trovato i fedifraghi semplicemente “in maniche di camicia” l’uno e “in sottana e camicia” l’altra in una calda giornata d’estate) nessuno le crederà e le apparenze saranno state preservate. La “soluzione finale” sembra, dunque, soddisfare tutti i personaggi, persino Beatrice che alla fine si presta alla tristissima messa in scena della demenza: in fondo anche lei, come Ciampa, è vittima della società del tempo e nel profondo non ha voglia di venir meno al suo ruolo di custode di un immacolato focolare domestico.

Questo “lieto fine”, però, solo apparentemente accontenta tutti. La risata finale di Ciampa, una risata “di rabbia, di selvaggio piacere e di disperazione a un tempo” rivela una importante verità: lo scrivano più che sollevato per aver scongiurato lo scandalo prova una profonda invidia nei confronti di Beatrice che, grazie alla pazzia, può finalmente urlare al mondo la verità. “Via, vada! Vada! Si prenda questo piacere – dice lo scrivano a Beatrice – di fare per tre mesi la pazza per davvero! Le par cosa da nulla? Fare il pazzo! Potessi farlo io, come piacerebbe a me! Sferrare, signora qua per davvero tutta la corda pazza, cacciarmi fino agli orecchi il berretto a sonagli della pazzia e scendere in piazza a sputare in faccia alla gente la verità (…). Sono i bocconi amari, le ingiustizie, le infamie, le prepotenze che ci tocca d’ingozzare, che ci infracidano lo stomaco! Il non poter sfogare, signora! Il non potere aprire la valvola della pazzia! Lei può aprirla: ringrazii Dio, signora! Sarà la sua salute, per altri cent’anni”.

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