Il geniale e attualissimo Molière di Arturo Cirillo

by Felice Sblendorio

Nelle mani di un regista contemporaneo capace di una visione ben precisa della drammaturgia teatrale come il napoletano Arturo Cirillo anche un classico di Molière ritrova una forza attuale e profonda. È il caso de “La scuola delle mogli”, uno dei testi del drammaturgo francese meno rappresentati e osannati, andato in scena sabato sera al Teatro “Lucio Dalla” di Manfredonia in apertura della stagione di prosa 2019/20, “Per chi suona la sveglia”.

Imperniato sull’intramontabile tema del rapporto fra uomini e donne, Cirillo ha portato in scena una commedia caustica a metà fra la commedia dell’arte e una vera e propria umana, umanissima tragedia. Convinto che “se una donna pensa, sa più del necessario”, Arnolfo, il protagonista interpretato da un Cirillo capacissimo di dosare esuberanze e vulnerabilità imposte, ha cresciuto una giovane trovatella figlia di contadini nella più totale ignoranza per allontanarla del desiderio del peccato e del tradimento. In un gioco dai toni ridicoli e patologici, la coreografia teatrale messa in scena si è rivelata calibratissima ed evocativa.

I tanti spunti offerti dal testo originale di Molière con la traduzione di Cesare Garboli sono serviti a Cirillo e ai suoi attori – in scena anche Giacomo Vigentini, Rosario Giglio e Marta Pizzigallo – per parlare di potere e gelosia, ossessione, sconfitta e dell’emancipazione per istinto in tre scene di Agnese, interpretata con spietato candore, astuzia e dolce isteria da una perfetta Valentina Picello. Di particolare interesse, in una prova attoriale ben coordinata con il tratto del regista, la scena di Dario Gessati: una geometrica e lineare casa dalla doppia anima con lo spazio della servitù e quello dedicato all’infantile dolce prigione di Agnese. Riuscendo a realizzare un campo e un controcampo quasi cinematografico, con accelerazioni suggestive fra movimenti, sguardi e luci, la casa ruota e mostra tanti angoli dello spazio scenico quanti quelli della morale di questa commedia che non assolve nessuno ma perdona tutti in una sorta di corsa all’ossessione che è sempre una sconfitta. bonculture ha intervistato Arturo Cirillo.

Dopo Tennessee Williams, Edward Albee ed Eugene O’Neill ritorna al suo amato Molière con “La scuola delle mogli”. Cosa le mancava di quel teatro così corrosivo?

Dopo la trilogia americana avevo voglia di ritornare a un teatro fantastico, meno legato alle leggi del realismo, se non addirittura a quelle del naturalismo. Per i tre autori americani ho realizzato una messinscena astratta, nonostante la drammaturgia originale fosse strettamente legata ad una visione naturalistica. Dopo questi tre lavori sono ritornato ad un teatro che, innanzitutto, dice sempre in maniera chiara che stiamo facendo teatro. Un teatro che pur non essendo esente da uno sguardo un po’ più profondo, a volte anche psicologico, ci ricorda la commedia dell’arte, i comici italiani in Francia come Scaramouche, le nostre maschere. In scena utilizziamo dei riferimenti di teatro napoletano e una recitazione molto fisica.

Lei utilizza il testo di Cesare Garboli, un grande appassionato di Molière. Proprio Garboli sottolineava la potenza critica e autocritica che possedeva il teatro del drammaturgo francese. Quanto c’è di lui in questo testo?

Rispetto a “Le Intellettuali” e “L’avaro”, in questo spettacolo l’elemento autobiografico l’ho sentito più forte. Ne “Le intellettuali” parlava di un potere che si limitava a quello della corte, mentre “L’avaro” aveva una centralità basata sul rapporto con i figli. “La scuola delle mogli”, nello specifico, credo sia più suo, più personale. Questo è il primo testo che ha scritto dopo il matrimonio con Armande Bèjart. Comincia la sua indagine nei rapporti di coppia partendo proprio dalla sua, dalla coppia Molière e Armande; una coppia che oggi si direbbe mal assortita: lei più giovane di lui, forse sua figlia o comunque figlia di Madeleine, sua storica amante. In questa commedia mi sembra che lui sposti il suo interesse dal potere dominante delle corna e della gelosia a qualcosa di più profondo, di più intimo. Serpeggiano varie sfumature in questo spettacolo dove c’è una trama ufficiale apparente e una più celata, ma sostanziale, che mette a nudo quello che intercorre tra Arnolfo e Agnese.

In questo spettacolo si sente molto il tema della disparità di potere fra uomo e donna. È il tema del potere, comune a ogni relazione sociale, che abbatte le logiche temporale e ritorna con forza?

Il mio teatro si è sempre molto occupato del tema della famiglia. Rispetto al rapporto di potere fra uomini e donne sicuramente Molière lo sento più attuale degli autori americani. Nonostante questo spettacolo sia del 1662, ci sono molti fili attuali che legano questa commedia a quello che viviamo: c’è un potere maschile che tende, in genere, a impossessarsi del corpo della donna. Quando portavo in scena “L’Avaro” erano i tempi di Berlusconi e ci pensavo tantissimo all’attualità di quel testo. Questa disparità di potere che racconta Molière è ancora tutta qui: nel nostro Paese il potere è maschile, dalla politica alla dirigenza, toccando anche questa nostra piccola realtà che è il teatro.

Arnolfo è l’uomo cinico che cerca di plasmare la vita di Agnese. Quando comincia il suo potere e finisce l’illusione di poterla “costruire” per tenerla con sé?

Secondo me lui non pensa di plasmare una donna, ma crede di poter dare una lezione a tutti gli altri costruendo una cosa che deve essere un corpo non sviluppato, una creatura. Non è un pigmalione, è molto peggio. Lui vuole sequestrare la sua crescita dando una lezione a tutti gli altri: se hai una moglie un po’ deficiente, allora non ti tradirà. Quello che poi accade nella commedia è lo sviluppo di una politica degli affetti che va verso una strada completamente lontana dalla cultura. Non essere istruita non impedisce ad Agnese di crescere e di avere un’anima capace di sentimenti, di amore.

La natura non salva tutti. Il personaggio che lei interpreta, nonostante l’amore che poi tenta di provare, non si libera dall’ossessione.

Arnolfo non si pente di nulla, neanche dopo il progetto fallito, perché lui vuole vivere in quell’ossessione. Lo spettacolo, infatti, termina con lui che vaga per questa città e incontrando Agnese non esita a chiamarla “sporcacciona”. È prigioniero della sua malattia e ama questa donna di un amore malato. Ecco perché la natura non è sempre un percorso lineare, anzi. Molière ci racconta che l’animo umano è un fatto ambiguo e che i sentimenti umani sono anche fatti di pulsioni sadiche o masochistiche. Lo dimostra in scena il rapporto di Agnese con Arnolfo, ovvero vittima e carceriere. Non scomoderei la Sindrome di Stoccolma per spiegare questo paradosso, ma fra di loro qualcosa di autentico c’è. La vera scena d’amore nello spettacolo è fra loro due.

Molto spesso il confine fra essere condannati e condannarsi è sottilissimo. Ci si libera mai dalle catene degli altri?

I lieti fine di Molière sono posticci. Alla fine, nel profondo, c’è sempre qualcosa di nero che rimane. Io non concludo con Agnese che resta nella casetta dei suoi sogni con Orazio, ma con lei che è fuori da quella prigione. Forse non si sposerà con nessuno dei due, forse intraprenderà una strada autonoma con tutto quello che poteva rappresentare nel ‘600 e ancora oggi una scelta di quel genere. Una donna che non fa figli, non si sposa, non è dipendente da nessuno è ancora una stranezza. Non è una puttana come secoli fa, ma sicuramene è una predisposizione inquietante per gli uomini. La donna libera è sempre un problema per il maschio.

La scena di questo spettacolo è un tutt’uno con la drammaturgia. Com’è nata questa casa dalla doppia anima?

Molto spesso le scene nascono da intuizioni di Dario Gessati, mentre per questo spettacolo avevo delle idee molto chiare. Volevo una casa delle bambole dove la stanza di Agnese fosse iper-infantile, super leziosa e in contrasto con una struttura della casa grigia, elementare. Personalmente avevo dei riferimenti pittorici: dei quadri di Mario Schifano e Franco Angeli, due pittori della scuola romana, e un dipinto del pittore russo Malevič. In questi quadri ci sono tre casette molto elementari e un utilizzo dei colori estremamente non naturalistico. Con le luci e la scena abbiamo cercato di ricostruire questa sensazione. A me ricorda Bob Wilson: qualcosa di “pop”, insomma.

Ne “Lo zoo di Vetro” c’era Tenco come colonna sonora, mentre in questo spettacolo Orazio canticchia “Figli delle stelle” di Alan Sorrenti. Perché le canzoni?

Questa cosa della musica proviene dai percorsi miei, dai ricordi di bambino fra un Sanremo e un Festivalbar. Quando misi in scena “Lo zoo di vetro” c’era Tenco come colonna sonora. Questa influenza viene anche dall’uso della canzone che ne faceva Annibale Ruccello. Lui si era rapportato molto con le canzonette, soprattutto quelle di Mina. È qualcosa che porto con me in ogni spettacolo.

I personaggi che porta in scena si fermano sempre un passo prima del grottesco, sull’orlo di un precipizio scenico. Quanto è difficile dare anima e corpo a queste vulnerabilità?

Io non posso rispondere quanto sia difficile perché non credo di avere molta scelta. Per me è necessario conoscere la vulnerabilità dei personaggi che devo interpretare sennò non li troverei interessanti o, comunque, non riuscirei a farli se non conoscessi i loro tormenti, i loro fantasmi. Sicuramente è più faticoso, anche perché la loro trascina inevitabilmente anche la mia vulnerabilità, ma credo davvero che non ci sia molta scelta. Quando si è in scena non posso che occuparmi della loro malattia.

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