Il manuale del Paradiso al Teatro Giordano. I «calabroni» Germano e Teardo sfidano l’indicibile del XXXIII Canto

by Enrico Ciccarelli

Dal Viaggio al termine della notte all’ultimo canto della Comedìa. Da Louis-Ferdinand Cèline a Durante degli Alighieri, dal fosco e geniale scrittore maudit del Novecento al più grande poeta del millennio. Elio Germano, attore talentuoso e irrequieto, e Teho Teardo, musicista di placido aspetto e luciferine tentazioni, sembrano stuzzicati dalla sfida impossibile di teatralizzare quanto di meno teatralizzabile esista.

Sembrano così il calabrone (in realtà il bombo) di Magnan, lo scienziato francese che affermò che le leggi della fisica impedirebbero a questo insetto di volare, solo che «lui non lo sa, e vola benissimo». Le convinzioni di Magnan erano errate, lo si è dimostrato nel 2005; e basta andare a vedere «Paradiso XXXIII» per capire che questa «teatralità impossibile» esiste solo nel nostro pregiudizio.

Anche a Foggia i fortunati spettatori del «Giordano» hanno potuto constatare come la pièce è teatro in senso pieno, di altissima qualità e pregio, non solo per l’attesa bravura dell’interprete e la sapienza musicale di Teardo (valorizzata anche da due giovani e capaci musiciste come la violista Alba Chiara Michelangeli e la violoncellista Laura Bisceglia), ma anche per chi sul palco non c’è: i registi Simone Ferrari e Lulu Holbæck (del Cirque du Soleil, scusate se è poco), il light designer Pasquale Mari, i videomakers Sergio Pappalettera e Marino Capitanio, lo scenografo Matteo Oioli.

Un team di eccellenze dedicato all’impresa di dire l’indicibile. Il XXXIII Canto del Paradiso, centesimo dell’opera, è conclusivo di un poema,  di una vita, di un’epoca. Non è sicuro, in realtà, che lo abbia scritto il Sommo Poeta. Nel 1321, quando spirò a Ravenna, la Commedia, non ancora Divina, si fermava al Canto XX. Vuole la tradizione che diversi mesi dopo lo stesso Dante, in sogno, rivelasse al figlio Jacopo come dietro a un drappo, in una nicchia dell’abitazione, fossero celati i rotoli contenenti gli ultimi tredici canti. Il che rende non troppo temerario il sospetto che siano stati proprio Jacopo e il fratello Pietro a concludere la grande opera, probabilmente basandosi su spunti e frammenti ritrovati (nessuno dubita della paternità dantesca della mirabile invocazione alla Vergine da parte di San Bernardo che apre il canto).

Come che sia, nel congedo dal suo viaggio ultraterreno Dante si mostra in più d’un punto reticente, incerto, ritroso. «A l’alta fantasia qui mancò possa» ci confessa nel quartultimo verso, a tracciare l’ultimo insormontabile gradino della condizione umana al cospetto e alla visione della Divinità. Certo, Alighieri non sarebbe Alighieri se non cercasse di coniugare allegoria e teologia, e se non azzardasse il supremo ardimento di cogliere, nell’indicibile luce di Dio l’immagine dell’uomo, come una sorta di specchio riflesso.

Versi che chiudono un’opera titanica, dal linguaggio fluviale e maestoso, perfetta nelle sue corrispondenze numerologiche ed esoteriche; un’epopea che solo in Omero e Virgilio, come quelle creazione letteraria ma anche enciclopedia di saperi, tecniche, costumi, cui il poeta lavorò per almeno quindici anni. Versi che chiudono altresì una vita di cinquantasei anni irti di gloria e di travagli, e chiudono un’epoca, quella del Medio Evo e delle istituzioni universalistiche, che con Dante tocca il suo momento più fulgido e con Dante cede il passo alle nuove urgenze della storia e dell’arte, proprio mentre lui, l’Autore, viene consegnato all’immortalità.

Come interprete dantesco, Germano sceglie un registro lontano dalla magniloquenza, piano, divulgativo; ma dal punto di vista della forza attoriale siamo più dalle parti di Carmelo Bene che da quelle di Roberto Benigni. E la scelta di svolgere il «ruolo» di San Bernardo da accovacciato, che immaginiamo abbia comportato uno sforzo atletico e respiratorio di notevole portata, è da gran signore della scena.

Ma ad averci colpito particolarmente è stato l’uso delle mani, perennemente mosse in rapporto con le luci fantasmagoriche che tengono luogo del fondale. Mani levate a protezione, o ad ascesa, o ad invocazione. Mani sul volto, o raccolte in preghiera o protese alla supplica. Mani di invisibile e a tratti impossibile dialogo fra la carne e lo spirito, tra la finitezza e l’immensità, fra i due misteri insolubili che chiamiamo l’umano e il divino.

Tanto per cercare il pelo nell’uovo, avremmo voluto che l’audio non avesse avuto qualche episodica ma fastidiosa defaillance. Tuttavia, trattandosi di uno spettacolo che ha la sua radice più autentica nella natura sublime dell’imperfezione, si può tollerare, anzi soddisfa. Rendendo ancora più solido l’apprezzamento per un cartellone, quello della stagione di prosa allestita dal Comune in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese, che ci pare di livello assai elevato.

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