Il mondo raro e incantato del puparo Mimmo Cuticchio: «I pupi non invecchiano mai, racconteranno sempre una storia nuova»

by Felice Sblendorio

Ogni pupo, nel mondo magico e incantato di Mimmo Cuticchio, porta con sé una storia, una meraviglia, una traccia. Nel suo teatrino di Via Bara all’Olivella, nel cuore di una Palermo sempre luminosa e vitale, Cuticchio da più di cinquant’anni custodisce un patrimonio materiale e immateriale unico. La sua Opera dei Pupi è un ponte fra tradizione e innovazione, fra un passato che non smette mai di indicare una via da percorrere e un presente che Cuticchio riempie e rianima con le storie di una tradizione dalla memoria contemporanea. Tutto è vivo nel laboratorio dove costruisce, cura e ripara i suoi pupi. La tradizione, per l’ultimo oprante, puparo e contastorie siciliano, è qualcosa in movimento, che parla di futuro e di generazioni. bonculture, in occasione dello spettacolo “Il gran duello di Orlando e Rinaldo” in programma questa sera a Bari per il cartellone Felicità Adriatica, il progetto del Granteatrino Casa di Pulcinella, ha intervistato Mimmo Cuticchio.

Maestro Cuticchio, che cosa rappresentano per lei i pupi?

Sono la mia vita: io sono nato con i pupi. Ho vissuto la mia infanzia, dormito, mangiato e giocato con loro. La mia, una famiglia allargata dai tanti pupi, abitava nei locali dove si facevano gli spettacoli. La nostra era realmente una casa-teatro. Quando si partiva, invece, i pupi erano sistemati nel furgoncino e io dormivo con loro.

Il tema del viaggio è centrale in questa vostra storia.

Dopo le distruzioni della Seconda guerra mondiale i miei genitori non emigrarono, ma si spostarono nell’entroterra siciliano con i loro spettacoli. Mentre tutto il mondo cambiava, mio padre lavorava con i vecchi. Il teatro viaggiava e ogni quattro mesi si spostava, di piazza in piazza.

Con l’avvento degli anni Sessanta e del boom economico come cambia il vostro lavoro?

Alla fine degli anni Sessanta il pubblico degli appassionati purtroppo diminuì. C’erano sempre più turisti e sempre meno pescatori. La nostra ultima piazza fu a Cefalù nel 1967. Così mio padre decise di spostarsi a Palermo e nel 1979 inaugurò il suo teatro. Decise di non girare più con il suo ciclo, ma di restare lì con un solo spettacolo per i turisti. Era convinto, dopo una lunga carriera, che questo fosse un compromesso conveniente: avrebbe conservato la voce e risparmiato i pupi. Per noi giovani, invece, le cose erano differenti.

Non riuscivate ad accettare una tradizione statica?

All’inizio io e i miei fratelli abbiamo provato a fare lo stesso spettacolo, ma col tempo diventava tutto molto meccanico, ripetitivo, scontato. Io, come il pubblico locale, amavo le puntate del ciclo dei paladini che, di spettacolo in spettacolo, continuava come una serie tv. Mio padre, però, era convinto che i tempi fossero cambiati e che i locali avrebbero preferito la televisione e il cinema all’opera dei pupi. Così si concentrò sui turisti. Io gli dissi: «È come mangiare sempre lo stesso piatto di pasta». Lui mi rispose: «Dopo la fame della guerra, va bene anche lo stesso piatto di pasta. Se i locali non vogliono più le nostre storie, sicuramente andranno bene ai turisti».

Lei ha lasciato Palermo prima di mettersi in proprio.

Sono andato a Roma nei primi anni Settanta per fare delle esperienze. Ho fatto una particina nel film “Le coppie” di Mario Monicelli. Studiavo dizione, fonetica e per campare facevo i fotoromanzi e i caroselli. Aldo Rendine, un mio maestro, un giorno mi disse: «L’attore è un trasformista, deve imparare tante cose, ma tu non puoi disperdere l’insegnamento più grande: quello di tuo padre. Io ti posso insegnare la dizione, ma quelle venti o trenta voci che fai tu non te le posso insegnare, quelle le hai imparate lui. Torna a Palermo». Lo ascoltai.

Come ritrovò suo padre?

Al mio ritorno mi fece trovare un cartello dietro le quinte del suo teatrino: c’era scritto «un posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto». Non era cambiato nulla, era rimasto dove l’avevo lasciato. I pupi, dopo ogni spettacolo, secondo lui dovevano ritornare al loro posto.

A questo punto decide di abbandonare il teatro di famiglia. Comincia così la storia dei Figli d’Arte Cuticchio.

Sì, nel 1971 ho fondato la mia compagnia. L’ho chiamata così perché io ero partito da lì: ero un figlio d’arte, ero il figlio di Giacomo Cuticchio. Per un po’ di tempo feci il teatrante itinerante con un portapacchi sulla 600 multipla e un teatrino smontabile con chiodi e martello. Andavo nelle scuole elementari e medie di Palermo e della Sicilia. Per i bambini i miei spettacoli rappresentavano un’ora di felicità. Nel 1973, poi, ho aperto il mio teatrino. Mi serviva un luogo dove poter ritornare e custodire i pupi. Dal 29 luglio 1973 i miei pupi hanno una loro casa: Via Bara all’Olivella, nel cuore di Palermo.

Il suo teatro è stato davvero popolare, per tutti.

Il teatro dei pupi, soprattutto per i vecchi, era come una fede. Avevamo un pubblico di pescatori, contadini, analfabeti. A teatro si imparava tanto: le storie, le emozioni, la geografia. Ricordo che mio padre diceva “Parigi di Francia”. A me sembrava scontato, ma proprio lui mi disse che in pochi, allora, sapevano dove fosse Parigi. Il teatro dei pupi è stato un grande laboratorio collettivo di emozioni e di vicinanza con l’altro. Nelle pause degli spettacoli la gente parlava delle storie: i più giovani chiedevano agli anziani informazioni sulle scene. Era come se quelle storie fossero vicende familiari. Il pubblico partecipava con le loro passioni e le loro emozioni al clima sentimentale dello spettacolo.

Come?

Con il silenzio, con il pianto e con alcuni gesti. Quando usciva un angioletto di un paladino che moriva, vedevo gli uomini anziani con i baffi togliersi la coppola e farsi il segno della croce. Quello era un loro segno di rispetto. Alla morte di Orlando erano tutti tristi: con quella puntata finiva la speranza e, con la morte dell’eroe, finiva la storia.

Da anni lei insegna e tramanda questa arte. Qual è l’elemento più importante?

Bisogna saper ascoltare. Io, da piccolo, ascoltavo per ore e ore le storie dei vecchi. Era un piacere ascoltarli. Bisogna imparare ad ascoltare per poi comunicare e farsi ascoltare. La mia è un’opera di trasmissione.

Da sempre usa la tradizione per narrare il tempo che viviamo.

In “Nudità”, uno spettacolo portato in primavera al Piccolo di Milano con Virgilio Sieni, il corpo nudo del pupo si è messo in gioco. In quel caso si può fare tutto o niente. La mia immaginazione ha fatto spogliare Orlando di tutte le sue armi. Per il cunto finale ho parlato di guerra e di quello che sta succedendo in Ucraina. Ho portato Astolfo sulla luna alla ricerca del senno di Orlando. Se l’uomo non perde il senno, vede la realtà. È come Papa Francesco che ribadisce: pace, pace, pace. Una cosa che tutti vogliono, ma che nessuno più riesce a conquistare e conoscere.

Nella sua lunga carriera di puparo e di contastorie non si è fatto mancare nulla, nemmeno il cinema.

Le mie partecipazioni al cinema sono sempre legate ai pupi o al cunto. Nella terza parte del “Padrino” racconto con i pupi la morte della Baronessa di Carini. Portare al cinema i pupi mi è sempre piaciuto perché sono loro i protagonisti. Ho solamente rifiutato alcuni film di mafia. Non volevo che nel mio teatrino ci fossero scene di morte e violenza. Io, come cittadino e come artista, ho lavorato come contastorie su Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Carlo Alberto dalla Chiesa. Era un gesto di civiltà, ma anche politico. Io non faccio politica diretta, ma la politica dell’uomo deve essere basata sul vedere, sul sentire e sulle decisioni giuste da prendere secondo i propri principi e la propria educazione.

Lei è nato, cresciuto e ora sta invecchiando con i pupi. I pupi, però, non subiscono il peso del tempo.

I pupi non invecchiano mai, ma diventano antichi. Noi invecchiamo e moriamo, ma per loro non è così. Se qualcuno saprà custodire i loro occhi vivi e aperti sul mondo, i pupi racconteranno sempre – e ancora – una storia nuova.

È una consolazione sapere che ci sarà un patrimonio così unico che le sopravviverà?

Io ho 1.280 pupi censiti: 800 sono nuovi, costruiti dal 1973 a oggi. Con 400 pupi antichi e 800 nuovi mi viene da dire che c’è un posto magico dove ci sono più nati che morti. Quei pupi, per noi, hanno rappresentato storie nuove. E hanno dato a me e alla mia famiglia la possibilità di sopravvivere e far sopravvivere i pupi tradizionali. Da mio padre a me, passando per i miei fratelli, le mie sorelle e i miei figli: la nostra è una storia familiare a lieto fine.

Oggi che cosa direbbe, dopo questa lunga storia, a suo padre?

Ho rincontrato mio padre nel regno dei morti quando ho fatto il mio spettacolo sulla storia di Ulisse, “L’urlo del mostro”. Io, a differenza di Ulisse che incontra la madre morta, ho voluto rivedere mio padre. Ero curioso di sapere che cosa pensasse del mio lavoro e di tutto quello che avevo fatto. Gli ho chiesto: «sto sbagliando? La tradizione, allora, che cos’è?».

Cosa le ha risposto?

Mi faccio dire da mio padre che la tradizione non esiste, che deve essere un punto di partenza e che è tutto nuovo quello che scopriamo dal passato. E che c’è solamente una cosa importante nella nostra vita: che i pupi continuino a vivere.

Qual è stato l’insegnamento di suo padre che non ha mai dimenticato?

Per la prima recita nel mio nuovo teatrino, mio padre arrivò in ritardo perché non volle annullare il suo spettacolo. Venne con mia madre e restò in fondo. Ad un certo punto mi urlò, in dialetto: «Parla più forte, che da qui non si sente niente». Non ho mai più dimenticato questo insegnamento: la recita si deve sentire dalla prima all’ultima fila. Sempre.

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