Il ponte (teatrale) sullo Stretto a Giallo Coraggioso. Nel segno dei due sfolgoranti monologhi di Domenico Loddo

by Enrico Ciccarelli

Da oltre un decennio «Giallo Coraggioso» è il brand che identifica la stagione teatrale allestita dal Teatro dei Limoni. Un cartellone di piccole e interessanti produzioni dei teatri off di tutta Italia nell’accogliente e limitato palcoscenico di via Giardino a Foggia. Malgrado le obiettive barriere di budget e di spazi, è raro che si resti delusi dalle proposte della Banda Galano; va considerato in particolare che proprio quelle barriere spingono alla scelta di spettacoli con uno o due attori in scena, che sono naturalmente quelli più apprezzabili dal punto di vista dell’intensità e dell’abilità. Tra fine marzo e inizi aprile hanno tenuto banco gli spettacoli del Teatro Primo di Villa San Giovanni e del Teatro dei 3 Mestieri di Messina. Rispettivamente «Dora in avanti», con una bravissima Silvana Luppino, e «Il Signor Dopodomani», con un non meno bravo Stefano Cutrupi. Scenografie spartane ma azzeccatissime, firmate rispettivamente da Valentina Sofi e Carlo Omodei, intelligenti e fluide regie di Cristian Maria Parisi e Roberto Zorn Bonaventura.

Per le compagnie delle due rive dello Stretto, in un ideale ponte teatrale, due magnifiche prove attoriali sostenute da testi eccelsi di un prismatico, caleidoscopico e talentuoso autore calabrese, Domenico Loddo, che definisce così il suo «profilo professionale»:

«Che poi nella vita io faccio altro. Il barista. Cioè costruisco bare per vivere. No. Sono un esperto della città di Bari. Neppure. In realtà lavoro in un Bar per elefanti, il Bar Rito. E faccio dei corsi sul fumetto nelle scuole medie. Ho tante vite in una sola ma soltanto perché, come scrisse il grande Gesualdo Bufalino, “metà di me non sopporta l’altra e cerca alleati”.»

Come potete capire, il poco più che cinquantenne Loddo, narratore in prosa e a fumetti, ha una grande passione e un grande talento per le parole.

Come sono nati questi due monologhi? Quale prima e quale dopo?

«Il primo a essere stato scritto è stato “Dora in avanti” dietro invito di Silvana Luppino. In realtà doveva essere un testo breve e divertente da leggere in un consesso femminista, invece mi sono complicato la vita mettendoci dentro un bel po’ delle mie passioni: i palindromi, la patafisica, Kieslowski con i suoi film. Le femministe lo hanno scaricato senza indugio e allora lo abbiamo fatto crescere fino a farne lo spettacolo che ha avuto più repliche tra quelli che ho scritto. Finita la scrittura di Dora, Stefano Cutrupi mi chiese se avevo un monologo per lui, e anche in questo caso stavo già girovagando attorno a un embrione di frasi attorcigliate sul ricordo doloroso di un amore perduto. Ci ho messo dentro le suggestioni del Vecchio Frac di Modugno, assieme a tutta una sequenza di canzoni italiane degli anni settanta e ottanta, unendo il tutto con la mia passione per la fisica quantistica. Poi i due testi apparentemente lontanissimi sono legati da una identica frase sulla perdita che condividono parola per parola. E’ un modo tutto mio di unire tutto ciò che scrivo in un unico universo narrativo».

Ti definisci “sudrealista”; in Dora in avanti citi Alfred Jarry e nel signor Dopodomani il Beckett dell’Ultimo nastro di Krapp. Sono autori da cui trai ispirazione o solo suggestione? Li trovi attuali?

«Amo alla follia il surrealismo. E’ stata una rivoluzione per l’arte ma soprattutto per la mia indole. Mi ha insegnato a guardare le cose con una coscienza diversa. Per questo ho fondato il mio “sudrealismo”, per provare a guardare il sud con occhi nuovi. Ovviamente non è un movimento artistico, ma una attitudine estetica che ha me soltanto come unico esponente e unico pubblico. Per quanto riguarda ispirazione e suggestione ho “quantisticamente”  risposto prima della domanda».

A parte la passione per il calembour e lo splendido uso dell’ironia, nei due testi colpiscono i riferimenti al cinema colto e alla canzone pop. Sono tue passioni?

«Anche qui potrei dire che ho già detto, ma allargherei l’orizzonte dei riferimenti coinvolgendo una cosa detta da Fabrizio De Andrè: non esiste un’arte alta e una bassa, un poeta non è meglio di un cantautore, un fumetto può contenere più letteratura di un romanzo, perché conta ciò che crea l’artista, non l’alveo dell’arte in cui lo fa. Per questo mi lascio contaminare da tutto ciò che sento, vedo e leggo. Uso l’inciso di una canzonetta “leggera” legandolo a una frase “pesante” di Beckett, oppure una molecola fumettistica di Pazienza sfumandola in una digressione cinica di Kant. Il tutto con grande ironia, che è il lubrificante migliore per gli ingranaggi del cervello. Per questo non mi ritengo uno scrittore né un drammaturgo, piuttosto sono soltanto un manipolatore di parole».

Non si pensi, però, che i due monologhi siano dei divertissement, degli esercizi di brillantezza verbale fini a se stessi. Nell’ora a testa che occupa la rappresentazione, gli spettatori sono chiamati al racconto di storie intensissime, dai tratti drammatici o tragici. L’ironia che pervade i testi sorregge plot ricchi di colpi di scena e tensione narrativa, registri emozionali coinvolgenti e autentiche piogge di meteore e metafore. Non potrei commentare Dora in avanti meglio di quanto abbia fatto una spettatrice di grande intelligenza cui lo spettacolo ha dettato questo post social:

«Ci sono parole e volti che ti entrano dentro; forse dimenticherò di aver visto questo monologo, ma solo perché è diventato mio. Perché tutti siamo un po’ Dora su e giù su un’ altalena, fra il cielo e la terra, avanti e indietro per vivere solo un illusione, perché la verità è che restiamo fermi lì, sempre nello stesso posto, immobili, paralizzati dal dolore. D’ora in avanti, una promessa che diventa un castigo, perché non si può andare avanti se non si perdona, se non ci si perdona. Lei direbbe che è patafisica: una soluzione immaginaria dove valgono non  le regole, ma solo le eccezioni» .

Con il teatro capita spesso che si assista a questo progressivo impossessamento: prima dal testo alla rappresentazione, in cui la parola deve diventare gesto, espressione, voce; e poi dagli interpreti agli spettatori. Così Silvana Luppino racconta il suo rapporto con Dora:

«Il mio approccio a questo testo è stato nel 2015 .Feci un Reading per capire se poteva funzionare.Il feedback fu molto positivo.Questa esperienza diede il la all’ipotesi di una messinscena che si concretizzò soltanto dopo due anni, nel 2017.Due anni che sono serviti a frequentare Dora, conoscerla, empatizzare con lei, ad innamorarmi di questo personaggio pieno di sfumature e ritrovarmi in alcune sue fragilità. Qualche volta mi capita di litigare con il personaggio ma in questo caso nessun disaccordo nonostante non ci sia somiglianza tra la mia storia e la sua. Ma c’è una comunione di sentimenti. Questo mi ha permesso di arrivare alla fase di allestimento ,dalla durata di circa 20 giorni, con grande serenità .Mi ha consentito facilità di memorizzazione del testo di Domenico Loddo. Cifra stilistica articolata e complessa. La difficoltà che ho incontrato è stata dover affrontare l’eliminazione della quarta parete ,interagire con il pubblico era una cosa che non avevo mai fatto fino ad allora e mi spaventava affrontare l’imprevedibilità. Ho dovuto lavorare molto su questo, con il regista. Il rischio era quello di lasciarsi andare ad onde emotive differenti. Una che riguardava l’interazione con il pubblico e l’altra in “scena”. Amo di questa pièce ,il fatto che si parli della vita, quella vera, quella di tutti noi e anche del modo in cui se ne parla. Il modo travolgente e stravolgente di Domenico Loddo. Sono Dora anche se non lo sono ma Dora In Avanti è tutti noi».

Travolgente e stravolgente, sì. E la capacità di Luppino di muoversi dal proscenio all’altalena al baule che sono gli oggetti di scena, di empatizzare con il pubblico, di portarlo a ridere, a commuoversi ad angosciarsi per lei e con lei è davvero di grande livello. Non stupisce che davanti agli spettatori plaudenti lei sembri provata come dopo una maratona o una scalata.

Applausi meritatissimi anche da Cutrupi, si intende. Se Dora ci conduceva sui sentieri e le citazioni del cinema d’autore (la protagonista si chiama Kieslowski, come l’autore della Trilogia dei Colori e del Decalogo), l’anonimo Signor Dopodomani, stretto parente del non meno anonimo Uomo in frac, ci regala un’incantevole colonna sonora di melodie del cantautorato italiano, talora giustapposte al testo e talaltre inserite in copione (come la stupenda C’è tempo di Ivano Fossati).

Se Dora ci raccontava un complicato intrico di relazioni, meditazioni ed edipi irrisolti, l’uomo in frac ci parla di una singola storia d’amore, di una eternità triennale che lo ha visto in rapporto con la fascinosa e irraggiungibile Ada (ne ascoltiamo solo la voce registrata, che è quella –assai bella- di Cristiana Nicolò. Ada ci viene descritta come sentimentalmente e sessualmente in bilico fra il protagonista e una donna, e l’unica traccia della sua presenza è un nastro registrato (gli elementi scenici consistono per l’appunto in un mangianastri e un grande registratore a bobine) in cui viene annunciato un incontro risolutivo per un appuntamento a dopodomani a cui mai si presentò.

In questo indicibile sproloquio di un uomo condannato a vivere (così recita il sottotitolo) Cutrupi danza con grande maestria sulle complesse piste loddiane e tiene vivissima la tensione, adombrando esiti cruenti accaduti o da accadere, divagando sulle preposizioni e su calcoli astrusi e girando a vuoto come una vite spanata sul mistero dell’amore e dell’abbandono. Un po’ patetico e un po’ sulfureo, un po’ tragico e un po’ vittimista, il signor Dopodomani perviene infine all’ascolto integrale del nasto di Ada, ricevendone una sorpresa irridente e crudele, che lascia lui e il pubblico nel mezzo di un finale inevitabilmente aperto.

Perché non ha davvero nessuna importanza come queste storie «vadano a finire». Servono solo a stabilire che, si abbia o meno un cilindro per cappello, un candido gilet e un papillon di seta blu, nessuno può mai sfuggire all’incanto, alla dannazione e all’enigma di un attimo d’amore che mai più ritornerà. Sia stato con Ada, con Zenobia o con altra lettera dell’alfabeto. Applausi.

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