“Il teatro è politico per statuto, perché parla alla polis”. Fabrizio Gifuni e la lingua di Cortázar e Bolaño

by Antonella Soccio
Fabrizio Gifuni al Teatro Garibaldi

“Un Comune come quello di Lucera, che investe nella cultura e nel teatro non è una cosa scontata. Vogliono farci credere che la cultura sia superflua. Cominciamo a pensare che il tempo libero non esiste, esiste solo il tempo della nostra vita, dell’identità di cittadini. Non succede in altre parti d’Italia, la maggior parte dei Comuni va nella direzione opposta”.

Queste le parole di Fabrizio Gifuni, direttore artistico della stagione teatrale del Teatro Garibaldi di Lucera, la PrimaVera, giunta alla sua terza edizione, al termine del bellissimo spettacolo “Un certo Julio”, l’omaggio ai due giganti della letteratura sudamericana, l’argentino Julio Cortázar e il cileno Roberto Bolaño.

Un leggio, l’attore, il suo corpo e la sua straordinaria voce che scava nelle parole degli autori, così evocativi, onomatopeici, tragici, comici. Gifuni è Lucas con le sue idre, è Bolaño. E gli spettatori si godono la magia delle ambientazioni che riempiono il palco spoglio. Parigi, Madrid, la Provenza.

Bonculture ha intervistato l’attore romano e lucerino prima di andare in scena.

Gifuni, quanto è complicato lavorare col teatro di narrazione?

Partirei proprio dal termine che hai usato: teatro di narrazione, che è un filone teatrale che ha dato in Italia dei risultati belli, importanti e molto significativi. Due anni fa a Lucera è venuto Marco Baliani, che forse è quello che ha aperto in Italia il teatro di narrazione con Kohlhaas di von Kleist. Quello che ho cercato di fare in questi anni è qualcosa che si allontana un po’ dal teatro di narrazione per un motivo. Anche nelle sue forme espressive migliori, ho la sensazione personale che questo genere racconti una storia con la quale è difficile non essere d’accordo. Può assumere pericolosamente dei lati ricattatori: c’è qualcuno sul palco che ti dice qualcosa su cui non puoi non essere d’accordo. Io penso che il teatro invece debba sforzarsi di mettere in campo qualcosa che ponga delle domande e lasci la possibilità agli spettatori di articolare e di tentare delle risposte. Si parla di teatro politico, ma io penso sempre al teatro e basta. Il teatro è politico per statuto perché parla alla polis e tutto quello che parla alla polis è politico, volontariamente o involontariamente. Coscientemente o incoscientemente.

Cortázar e Bolaño, dopo Gadda, Pasolini, Testori, Camus, sono altri due giganti della letteratura con una lingua e una forma di racconto, che si presta naturalmente ad essere incarnata a teatro. Con Pasolini la scommessa era: ma degli articoli di giornale, dei frammenti di poesia, dei poemetti possono diventare materiale di scena? Possono diventare nuova drammaturgia, se portati in mezzo al pubblico? Pasolini era tutto in mezzo al pubblico. Io credo di sì, quella cosa mi ha molto incoraggiato e poi l’ho rifatto con Gadda e con gli altri autori. Penso che se uno scrittore è stato in grado di mettere in campo una lingua forte, quella lingua è già teatro. Si tratta di darle una forma e questa è la cosa che mi diverte più fare.

È difficile selezionare i brani da portare in scena?

Selezionare è il primo gesto politico, scegliere le parole che a loro volta sono state scelte con cura dai loro autori e decidere di rimontarle, dando loro un ordine o un disordine, che risponde ad un discorso che va avanti. Per me tutti questi spettacoli sono legati da un filo rosso comune. In questo caso mi affascinava di questi due scrittori la capacità di essere tragici e comici, non perdono mai la leggerezza anche quando sono in grado di spalancare degli abissi paurosi in cui ti fanno inciampare dopo un certo numero di pagine. Sono stati davvero dei rivoluzionari della scrittura, agivano la scrittura- era anche un periodo storico particolare in dei luoghi caldi come l’Argentina e il Cile, che in quegli anni sono stato teatro di scontri e colpi di Stato, fughe- tutti e due sono scappati e deragliati in altri Paesi e poi ritornati. Mi interessava e incuriosiva molto la loro scrittura. Fondamentalmente c’è un principio di piacere: quando mi piacciono degli autori, cerco di contagiare il pubblico. Con Gadda, che è sempre stato considerato un autore di nicchia, difficile, complicato, con una scrittura complessa e che negli anni è diventato col pubblico un autore molto più accessibile di quello che si pensava, la scommessa è stata vinta.

C’è un autore contemporaneo che ti ha rapito?

No, nel senso che continuo a lavorare su questi autori. Sto naturalmente continuando a leggere, ma non ho ancora messo a fuoco in questo ultimo anno una scrittura che mi chiama alla scena. Ci sono tanti libri che mi piacciono moltissimo, ma sono pochi quelli mi spingono a portarli sul palcoscenico. Ci sono libri che mi dicono: portaci nel quadrato magico. Altri devono solo essere letti.

Quando si lavora a teatro, devi riuscire a dimostrare che ha un senso leggere o intrepretare o incarnare questi testi, chiamando gli spettatori in un teatro. Lo spettatore può sempre dirti: questi libri me li potevo leggere tranquillamente a casa.

Alcuni possono essere solo delle letture sceniche…

Il discorso della lettura scenica è diverso, per me non esiste, per come le interpreto io. Quando sono in scena e sto immobile davanti ad un leggio com’era nel caso dello Straniero di Camus raggiungo la stessa temperatura e produco lo stesso gesto performativo rispetto a spettacoli in cui il mio corpo non ha requie in scena per tre ore o per cinque ore come nel caso di Freud. Quando mi chiedono: ma è una lettura, un reading? Io ho sempre difficoltà nel rispondere. Vienilo a vedere e poi decidi tu come lo chiami. Capisco che le letture sceniche sono state molto spesso abusate, molti ci hanno marciato.

Se ne abusa anche nelle librerie o no?

Quella è una forma di comunicazione. Ma quando le fai a teatro o riesci a dimostrare che sul palco succede qualcosa oppure lo spettatore rimarrà deluso. In teatro la regola è quella: o succede qualcosa o non succede. Puoi avere scene, costumi, venti attori in scena e può non succedere niente. Molto rumore per nulla. Ed è mortificante, perché ho messo in campo tutto questo brickbrack che è costato milioni e non accade nulla. Poi magari invece entra un solo attore in scena, seduto su una sedia, come per Baliani o Davide Enia, e il tempo si sospende. Entri in un’altra dimensione.

Siamo alla terza stagione lucerina, alla terza PrimaVera. All’inizio dicesti che il pubblico andava rieducato. A che punto siamo? Come risponde?

Mi sembra che risponda molto bene, intanto perché viene e il teatro è sempre pieno. C’è una bella risposta, un sentimento di gratitudine che mi fa molto piacere, perché quando un teatro ricomincia ad essere vivo, è un piacere per tutti. Non si tratta di educare o rieducare il pubblico, perché non siamo professori.

Stiamo riabituando il pubblico ad avere una confidenza, una sensibilità che già ha. In ogni città, in ogni paese, in ogni angolo della terra, ci sono essere umani che non vedono l’ora di essere messi a contatto con qualcosa che li emozioni, con storie da raccontare, da ascoltare. Certo quando si perde un po’ l’abitudine, il lavoro è quello di riabituare a questa sensibilità. Aver dato una continuità in questi anni con le stagioni, significa aver fatto prendere confidenza con uno spettacolo di cui non si conosceva nulla, con un’attrice che non si conosceva. Ad esempio, quanti a Lucera conoscevano Maria Paiato, che è una delle più grandi attrici italiane? Abbiamo detto al pubblico: c’è Maria Paiato che legge Flaiano al Teatro Garibaldi. Ah, vediamo che succede. E succedono delle cose bellissime. È anche un fatto di conoscenza.

E di opportunità?

Sì, di opportunità.

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