Il teatro totale di Mimmo Borrelli a Lucera. “Il Sud ha bisogno di dirsi le cose con violenza”

by Antonella Soccio

Con Napulicasse il teatro totale di Mimmo Borrelli, considerato il più grande drammaturgo italiano contemporaneo, arriverà a Lucera per l’attesissimo appuntamento di chiusura del Festival della Letteratura Mediterranea nel Teatro Garibaldi.

Stato privato di agitazione: il poeta, autore e attore e regista porterà la sua Napoli viscerale e caricata all’interno di un gran patto collettivo col pubblico, con una lingua che diventa corpo e una realtà che diventa sacra, in un mondo che rotola come lo zolfo flegreo. Vita e morte. Borrelli è impegnato negli ultimi anni in un altro straordinario spettacolo, premio Ubu, La Cupa, che forse potrebbe arrivare in Puglia a Lecce e a Bari nella primavera del 2020.

In una cultura dell’apparire che liofilizza la spia del dolore, il teatro è ancora un luogo dove fare comunità.

Noi di bonculture lo abbiamo intervistato prima dello spettacolo.

Borrelli, i ragazzi del Festival lucerino l’hanno chiamata affinché Napucalisse sia lo strumento di agitazione collettiva per Lucera. Come si sente ad essere interprete di questa missione?  

È sempre così, nel mio caso accadde già 20 anni fa, che me lo dissero: io scrivo per salvare il territorio, scrivo per salvare prima di tutto me stesso e il mio territorio, vengo da Bacoli nei Campi Flegrei, una zona bellissima ma anche con tanti problemi. Il mio obiettivo è sempre stato quello di salvare e risolvere me stesso, anche come cittadino all’interno della mia comunità. In questo modo quel messaggio diventa universale, la mia missione che qualcuno mi ha appiccicato addosso in questi lunghi anni di navigazione lungo l’Italia e l’Europa è sì pesante come responsabilità, però mi diceva qualcuno che compito dei poeti è aprire le ferite, mettere il sale sulle ferite. Non c’è più tempo per restare dentro quel familismo amorale secondo cui se mio figlio è delinquente, però è mio figlio, non si dice, mentre se invece il delinquente è il figlio dell’altro si può dire. Noi abbiamo questo problema al Sud: noi dobbiamo dirci che i problemi esistono e dobbiamo dircelo anche in modo molto violento, che è la scelta che ho fatto io linguisticamente. In questo momento l’orrore che ci arriva dalle tv è opacizzato e pietrificato dallo schermo. Qualche anno fa ebbi l’intuizione di alzare il livello: per far arrivare ancor meglio e denunciare il pericolo bisogna amplificare il rumore e il volume della sirena. Come lo fai? Attraverso un linguaggio che verticalizza l’orrore e verticalizza quello che diceva Goethe: raccontare e dire quel che nessuno vorrebbe udire. Il Sud ha bisogno di questo: raccontarsi e dirsi la verità è il primo passo per poter risolvere i propri problemi. Qualche passo secondo me si sta facendo, seppur con grandi difficoltà. Ci sono una serie di iniziative al Sud e di festival che si stanno mettendo in gioco. Ci sono tanti avamposti.

Quali ad esempio?

C’è il Festival di Castrovillari, non voglio parlare del mio Efestoval, ma pure quello.

Efestoval è un festival itinerante che trae spunto dal territorio, come si rigenera?

Si tratta di un festival Site specific, io ambiento tutti i miei testi in luoghi precisi dei Campi Flegrei, in maniera quasi topografica, poi questi luoghi vanno traditi e verticalizzati. Come l’autore parte dai luoghi per i testi, sarebbe bello fare degli spettacoli site specific, questa è l’idea. Con i miei testi era molto semplice, perché sono ambientati nei Campi Flegrei. Come faccio per gli altri, visto che era impensabile ospitarli a Bacoli per molto tempo? Faccio un esempio, con Vincenzo Pirrotta autore di uno spettacolo che si chiama Guanzù, sulla pesca dei tonni, abbiamo portato lo spettacolo sul Lago Mare Morto dove nacque la miticoltura e la pesca, con i Romani. Lo portammo lì. Questo tipo di processo con spettacoli riambientati in luoghi che possono trovare la propria scenografia naturale, hanno trovato un corrispettivo positivo.

Lucera e altri territori pugliesi sono luoghi romani come i Campi Flegrei, potrebbero lasciarsi contaminare da questo metodo?

Ognuno può sempre prendere esempio, il problema è che l’esempio diventi prassi. Sono stato recentemente al Festival del Letteratura di Mantova, fatto con 800 volontari, con la collaborazione dell’Università. Lo fanno da 25 anni, ma partirono in 8 25 anni fa e non se li cagava nessuno. Potremmo dire una cosa razzista al contrario: siamo sempre al Nord e siamo sempre a Mantova dove le cose funzionano, lì si è più seguiti, al Sud non ci segue nessuno, perché ci sono altri problemi e non ci sono neanche gli interessi, nessuno ha ancora capito, tranne in qualche luogo del Sud, che la cultura è l’unico mezzo per far progredire il Sud e dar da lavoro a tutti. Ma questa è una cosa che penso da anni. A Nord lo capiscono subito: Strehler e Paolo Grassi a 25 anni ricevono dal Comune non so quante migliaia di lire per poter costruire il Piccolo. Al Sud non è mai accaduto.

Neanche per il Napoli Teatro Festival?

Il Napoli Teatro Festival nacque con ottimi propositi, ma con la bagarre dell’attuale politica i festival, almeno quelli istituzionali, diventano molto spesso una parata propagandistica della politica che pone delle persone al comando. Il festival di Napoli era partito molto bene, poi ha avuto una sua debacle, adesso c’è qualcuno che sta cercando di rilanciarlo, ma è complicato radicarlo nel territorio, perché come fai a radicarlo nel centro storico di Napoli? È difficile. Bisogna impegnarsi nella percezione di cambiare il territorio, la parola e il racconto devono cambiare. Il teatro e le letteratura devono avere questa funzione: tu racconti un mondo per cambiarlo. Un festival deve andare a scuotere le coscienze, avvicinandosi al popolo, che non è stupido.

Ho letto che lei attinge molto per i suoi versi dal linguaggio parlato dal popolo, è così?

Intervisto gente, li registro e poi sbobino. Racconto storie anche raccogliendo dal contemporaneo. Creare comunità attraverso il racconto significa fare un teatro alla portata di tutti. Nel 2005 accadde una cosa che mi fece andare avanti: Giorgio Bocca, Sermonti, Quadri mi dissero che ero un attore e un autore straordinario. Questa cosa mi mise una paura addosso e una responsabilità, ma mi dissi: devo ripartire, mi hanno detto che so scrivere e devo andare avanti. Ma il mio obiettivo vero al piacere di avere i più importanti intellettuali d’Italia che mi adorassero, era parlare alla gente, ma senza il decadendismo della cultura cinematografica e teatrale, che vuole che devi scrivere semplice, facile- “fai il romanzetto con soggetto predicato e pochi aggettivi- io cerco di alzare il tiro, perché le persone non sono stupide. Un tempo mio nonno andava ad ascoltare l’opera dei pupi che era in versi, andava ad ascoltare l’opera lirica, non capivano niente ma si ricordavano il testo, riuscivano a capire la storia. Ritengo che in questo momento, per poter dare una speranza di futuro bisogna dire alla gente che le persone non sono stupide e non occorre oftalmologicamente e oppiaceicamente metterli su un divano tenute con una coscienza bassa, perché ti serve quel consenso salvinianamente becero. A quello si arriva: Salvini è un processo che parte dagli Anni Ottanta e da Berlusconi, con le tv, che è il modello americano, vabbè ora passo alla politica e mi innervosisco.

Si tende a tenere bassa la coscienza di quelle stesse persone che hanno un linguaggio più vivo, vero?

Sì, mio padre aveva pochi mezzi, ha la III media ma l’ha presa, ma mio padre è una persona di grande cultura, era iscritto al Pci, aveva una cultura sociale di stare insieme, che era una cultura di partito. Un tipo di cultura che stava anche nella Democrazia Cristiana: era un tipo di cultura di come stare al mondo, adesso non c’è più, c’è la sopraffazione. Sei forte, se hai soldi, sei bravo, se sei vincente, se appari in televisione o hai un Instagram che ha dei follower, ma questo è un modello reaganiano, la dottrina Powell, che parte dal benessere che deve cadere alla gente come briciole, per tenerli lì per il consenso al voto. Un modello in cui le disparità economiche aumentano e aumenta quell’odio per avere consenso. A me sembra così semplice.

Come mai è così difficile sperimentare nei teatri stabili italiani?

La legge ministeriale ha tanti vantaggi, prima permetteva delle libertà maggiori, poi si è cercato di regolamentare alcuni passaggi, oggi tutto deve essere contabilizzato, i finanziamenti sono ottenuti sulla base del numero di spettacoli, sul numero di ore lavorate, non sul numero di prove. Non ci sono fondi per approfondire. Pina Bausch provava mesi, ma era sovvenzionato. Io non ho questa possibilità, mi sono creato un gruppo di attori da 15 anni, che io seguo, risolvo tutto con la penna. Quando dicono: Mimmo Borrelli scrive bene, è un talento, rispondo, sì è vero, ma questo è arrivato da una difficoltà, ho solo una penna e un foglio e non avevo uno spazio teatrale, ancora adesso non ce l’ho. Non c’è nessuno che mi ha dato uno spazio. Scrivo da attore, chiamo gli attori, un mese li pago io, un mese lo Stabile. Non ho i mesi che altri artisti hanno in Europa. La ricerca si è accorpata nei teatri nazionali. Questa cosa è devastante perché se trovi un direttore che non fa ricerca ma solo teatro classico, quei fondi non vanno per le sperimentazioni ma per operazioni regolari. A Napoli c’erano 8 teatri che erano delle isole felici, oggi quei fondi non arrivano più lì, ma solo ai teatri nazionali.

Qual è il suo rapporto con la Puglia? La si vede poco in tournee, come mai? Perché il Teatro Pubblico Pugliese non ha mai acquistato i suoi spettacoli?  

Sono stato al Kismet, i miei spettacoli sono enormi, qui posso portare solo le piccole cose, come Napocalisse e Malacrescita, venni a Bari nel 2011 da Teresa Ludovico. Sono stato a Lecce, dove Goffredo Fofi mi diede il premio per La Cupa lo scorso anno. C’è un attore importantissimo che è Gaetano Colella di Taranto. Oggi nei teatri non si cerca tanto il contenuto, quanto le facce, il nome televisivo. Molti li stimo, ma è agghiacciante come sta cambiando il mondo della cultura perché quei fondi dovrebbero servire per attività teatrali che hanno senso sul territorio. Può essere che saremo in Puglia nel 2020.

Dice sempre che il dialetto è la lingua dell’azione, in Puglia ci sono grandi fermenti culturali, ma pochi scrivono e recitano in dialetto. Per lei è facile perché il napoletano ha secoli di storia e di tradizione?

Io credo sia una questione di coraggio, non che i pugliesi non siano coraggiosi. Noi abbiamo avuto la fortuna di avere una lingua, il napoletano, vera e propria, che dalla fine del 1800 fino alla metà del Novecento era usato come lingua letteraria: non c’era Sanremo, era un festivaluccio di quattro soldi, ma il Festival della Canzone nel mondo era il Festival di Napoli. Di Giacomo, Viviani Scarpetta, Bracco, Ferdinando Russo, sono stati tra i migliori d’Europa, Eduardo De Filippo è diventato il più famoso, ma forse Viviani era pure superiore. È stata una fortuna per noi che ha dato coraggio a persone come me di dire: aspetta un attimo, c’è una tradizione vivissima, c’è una montagna, in cui sono sul picco, ma dietro di me ci sono metri di persone che hanno lavorato. In Puglia questo non c’è, c’è solo Matteo Salvatore, che io cito in tutta Italia e che reputo il più grande cantautore italiano. Lo pagarono per fare una ricerca di canti popolari pugliesi, molti dei quali se li inventò. Insomma, qualcuno sta uscendo, ci sono le Fibre Parallele che stanno cominciando a lavorare sulla tradizione, anche Gaetano Colella scrive bene come Andrea Messina, ci sono delle realtà, si stanno anche affermando, ma in Italia secondo me la lingua scenica non può che essere il dialetto, perché l’italiano non è una lingua d’azione. È ancora troppo giovane, lo diverrà tra 100 anni, perché diventerà una lingua parlata da tutti ma in vari slang come accade negli Stati Uniti.

Si rimprovera spesso a questo territorio, che è anche terra di Quarta Mafia, di non avere una propria narrazione delle storie criminali, che ne pensa? In altre zone del Sud il racconto c’è ed è efficace.

Noi avevamo la sceneggiata, era una saga che doveva rivolgersi alla gente del quartiere più feroce, andava a raccontare la malavita del tempo. Avevamo un genere, sparito negli Anni Settanta, i Pupi napoletani, che sono i più antichi. Erano le storie di Tore ‘eCrescienzo, il territorio era il texture appetibile per poter far venire la gente al teatro, è una tradizione forte che inizia nei primi anni del ‘900. La sceneggiata ha origini antiche, una degenerazione del melodramma.

C’entra il neomelodico?

Il neomelodismo ha distrutto la sceneggiata. Nella sceneggiata c’era un canovaccio, ma c’erano delle massime sulle notizie del giorno, era un elemento divulgativo, molto popolare che aveva un senso.

Cosa si aspetta dal pubblico di Lucera? Arriveranno anche spettatori da Bari e da luoghi non proprio vicini.

Dal pubblico non bisogna mai aspettarsi niente, devo essere bravo- e spero di esserlo- a prendere e portare a noi la fiducia del pubblico e dobbiamo guadagnarcela, è più una sfida. Poiché molti mi aspettavano, mi aspetto un clima accogliente, ma poi dipende da noi. Mai essere sicuri della fiducia del pubblico e andare comodi sul palco. C’è sempre una paura prima di andare in scena, di non essere all’altezza, io non sono mai certo di essere all’altezza, e questo mi porta a quel sacrificio, che tanti edulcorano raccontando i miei spettacoli, che io mi sacrifico, che c’è una trance in scena, lo faccio perché mi sento sempre di dover qualcosa, per ripagare quella fiducia che va riguadagnata ogni volta.

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