«Io accuso» al Teatro dei Limoni. Magnifico esempio di magia del teatro e della sua capacità di emozionare anche chi lo fa

by Enrico Ciccarelli

Non è affatto facile scrivere di «Io accuso», la pièce che Roberto Galano ha tratto da «Processo a Dio» di Stefano Massini e che è andato in scena al Teatro dei Limoni di Foggia in occasione della Giornata della Memoria. Non è facile perché non stiamo parlando dell’ennesimo pregevole testo sulla Shoah (continuiamo a ritenere che nulla possa superare, nel campo, la micidiale «Istruttoria», l’Oratorio in undici canti che Peter Weiss, tedesco, scrisse e mise in scena nel 1965, vent’anni dopo la scoperta dell’orrore); stiamo parlando di teatro e di teatralità, di quello che in Occidente, ben lungi dall’essere mero spettacolo, è catarsi civile, lavacro rituale, prezioso momento di autocoscienza. Ed è –direbbe Majakowsky«non specchio che riflette, ma lente che trasforma».

La prima trasformazione operata da Galano è quella di intervenire sul magnifico e sovrabbondante testo di Massini asciugandone gli eccessi di compiacimento tipici di chi scrive molto bene e serrarne i ritmi narrativi. La seconda –ci è parso- quella di conferire, attraverso un sapiente uso delle luci, un’aura onirico-spettrale alla narrazione, secondo un registro che gli spettatori di via Giardino hanno imparato a conoscere. La terza, che però appartiene al retrobottega degli attrezzi di scena, ed è quindi una discutibile inferenza del critico, quella di portare le attrici e gli attori ad una introspezione senza reti di sicurezza.

Il risultato è travolgente: travolge gli splendidi interpreti, rendendo perdonabili o addirittura trascurabili gli incespicamenti sulle battute e le dizioni non impeccabili, e coinvolge il pubblico in un appassionato patimento che mozza il fiato a tutti fino al necessario finale aperto.

Il plot disegnato da Massini è lineare: l’attrice Elga Fisch, deportata a Majdanek, inscena subito dopo la liberazione dal campo, con un rabbino e un altro sopravvissuto, un processo all’ufficiale nazista che nel lager aveva su di loro un potere illimitato di vita e di morte e che amava per questo definirsi «Dio». Elga, metà Erinni della vendetta, metà donna tormentata assetata di giustizia, svolge il ruolo della pubblica accusa, mentre il rabbino ha il compito di difendere il boia, la cui unica speranza di assoluzione sta nell’esistenza di Dio, e nell’essere quindi lui null’altro che un suo crudele strumento.

L’allestimento foggiano trova l suo primo snodo nella compresenza sul palco di Elga l’attrice ed Elga la deportata, due facce di una condizione prismatica, nella quale convivono e coesistono gli applausi delle platee e le ferocie di Majdanek. Il passaggio è reso fluido dalla maestria con la quale le due attrici intrecciano il loro dire fino a farne un discorso unitario (e pensiamo che il regista abbia lavorato tanto su questa perfetta sincronizzazione). In scena la luce violenta che piove sul boia si trasforma in ombrato crepuscolo, nel quale vanno in scena nudità spoglie, prive di qualsiasi erotismo malgrado corpi di grande bellezza.

I cinque interpreti, tutti allievi del Corso Avanzato, sono uno più bravo dell’altro. Stefano Dragoni, che fa da giudice istruttore del «processo a Dio», è il primo a entrare in scena, indossando l’impermeabile nero delle SS, che è in realtà quello del prigioniero legato che tutti inzialmente scambiano per l’ebreo («potenza della lirica, dove ogni dramma è un falso» direbbe il Caruso di Dalla). Si disimpegna benissimo, in un ruolo cui il copione assegna funzioni di terzietà e a tratti di marginalità.

Raul Lannunziata è credibilissimo, come nazista senza ombra di pentimento o di pietas. Sopporta stoicamente le percosse (in particolare un ceffone di Stefano Dragoni che sembra davvero poco artefatto) e non cede mai alla banalità burocratica di un Heichmann. Incarna alla perfezione il delirio superomista e l’inconscio desiderio di morte che fu alla base della tragedia del nazionalsocialismo, così profondamente radicata nell’anima faustiana della stotia tedesca.

Cristiano Russo, che nei ritmi del dramma ha una funzione di rallentamento e di pausa, è sontuoso nel ruolo del rabbino-avvocato difensore. Il suo monologo allo specchio è una pagina di gran teatro, uno scoglio sul quale avrebbero fatto naufragio attori ben più collaudati. La fisicità imponente e i movimenti sorvegliati lo aiutano, ma è la sensibilità ad essere decisiva, facendogli restituire tutte le angosciose domande dell’uomo di fede di fronte all’inferno in terra.

Resta da dire delle due interpreti di Elga prima e dopo. Nicole Piemontese è perfetta nel ruolo dell’attrice che non dimentica, e che anzi quasi mette in scena se stessa. Le grandi doti di eleganza ed equilibrio che Piemontese dimostra sempre si caricano in questa circostanza di capacità espressive superiori rispetto alle altre prove in cui l’abbiamo vista impegnata. Forse è tempo di salutare l’allieva e dare il benvenuto all’attrice.

Upgrade notevolissimo anche per Graziana Cifarelli, in un ruolo che non le consente gli abituali toni ironici e i trilli da soprano leggero che normalmente la caratterizzano. La sua bellezza, come sempre notevole,  è messa al servizio di una rabbia implacabile, di arringhe a nome dell’umanità, di luoghi e memorie di sangue e lacrime. Trasmette ancora più degli altri un coinvolgimento totale, contagioso, estremo, al quale sacrifica anche il consueto perfezionismo.

Gran bella cosa, il teatro vissuto con questa passione e questa tensione etica. Per quel che ci compete, applausi a scena aperta e sinceri ringraziamenti.

Le foto sono di Monica Carbosiero, per gentile concessione

Nel video l’intervista a Roberto Galano

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