La bellezza di Futura de La Bottega degli Apocrifi e del palco come agorà. Cosimo Severo: «Il teatro deve essere popolare e di ricerca»

by Antonella Soccio

Da tempo le stagioni teatrali de La Bottega degli Apocrifi a Manfredonia al Teatro Dalla sono qualcosa di più che semplice intrattenimento colto. C’è una missione altra, che si vede oltre la quarta parete. Il palcoscenico ha l’ambizione di diventare agorà.

L’ultima stagione, Futura, non è soltanto una citazione di una delle più belle canzoni del cantautore bolognese, innamorato del mare del Golfo e delle Diomedee, ma è un manifesto poetico e politico che spinge una intera comunità a guardare oltre il confine del già noto, che affronta la paura nel domani con la bellezza.

Noi di bonculture abbiamo intervistato Cosimo Severo, regista, direttore e animatore insieme a Stefania Marrone della compagnia.

Cosimo, Futura è, è stata, una stagione lunghissima, molto variegata, diversissima, ricchissima di generi e linguaggi, alcuni dei quali condivisi con la scorsa amministrazione di Manfredonia, anche distanti dalla vostra esperienza teatrale come Bottega degli Apocrifi. O è impossibile non proporre anche “evasione”?

«La Stagione del Teatro comunale di Manfredonia proseguirà fino a maggio 2024, si, direi la più lunga di sempre. I titoli individuati sono il frutto di una valutazione congiunta tra Amministrazione, Teatro Pubblico Pugliese e noi Apocrifi. Com’è noto non c’è una vera e propria “direzione artistica” della Stagione ma c’è soprattutto da parte nostra, una visione ben precisa, c’è uno sguardo sul teatro vivo e vitale che si produce, cerchiamo di aprire squarci sempre più larghi sulla drammaturgia contemporanea, proviamo ad alimentare le produzioni under 35 o anche under 40, ormai si è giovani fino a quando?

Condividiamo e abbiamo condiviso la quasi totalità dei Titoli inseriti. Oserei dire che questa Stagione ha il colore della condivisione piena, avvenuta prima con l’Amministrazione (la parte politica) poi decaduta e con Ufficio Cultura, TPP e successivamente con la Commissaria. Un lavoro di collaborazione costante, una discussione nel merito, ciascuno in base alle proprie competenze e qualità.

Quanto è difficile proporre spettacoli che “educhino” il pubblico a un percorso definito?

Non so dire se negli anni io abbia mai pensato di guidare o educare il pubblico verso un percorso o una idea prefissata in partenza. Sono convinto che il teatro deve essere “in mezzo” deve essere la “piazza” deve essere popolare e di ricerca per usare parole antiche scritte e pronunciate da un grande drammaturgo, attore e regista quale Leo De Berardinis.

O è impossibile non proporre anche “evasione”?

Rispetto alla necessità di programmare quel che definisci evasione, direi che associare la parola teatro a evasione potrebbe assomigliare a una bestemmia. Il pubblico, e direi soprattutto il grande pubblico (in senso numerico) insegue e desidera innamorarsi, conoscere, sorprendersi e non vuole accontentarsi. Evadere da chi e da cosa? La comicità non è evasione, uno spettacolo brillante, anche il meno riuscito, non punterà mai a far evadere dalla realtà: la userà, la cercherà, e se lo fa in modo intelligente non potrà che produrre un desiderio di profondità. Sono convinto che lo spettatore a teatro cerchi questo, se vuole evadere va in pizzeria».

Avete aperto con la storia di Michele Fazio. Quanto è sentito il tema della legalità a Manfredonia?

«Iniziare con lo spettacolo “Sotc ddò” di e con Sara Bevilaqua, è stato il modo più efficace per noi di proseguire quel che ha iniziato l’associazione Libera con la marcia contro le mafie nella città di Manfredonia. Io credo ci sia una forte e generale aspirazione: sentirsi parte di una città, di una comunità. E questo c’entra con la legalità? Si. Credo, allo stesso tempo, che questa aspirazione sia costantemente frustrata da una profonda solitudine. Ci si sente soli, incapaci di parlare la stessa lingua, come se il mio vicino di casa vivesse in un altro emisfero. Una solitudine atavica che caratterizza posti come questo a sud dell’Italia, che non riesce a mettere assieme idee, collaborazioni fruttuose, cooperazione, che vede nell’altro solo un antagonista, qualcuno da invidiare o sconfiggere. E questo porta a quella forma di disamoramento, che spinge spesso a giustificate (quando non a incitare) i propri figli nella convinzione che vivere altrove sia meglio. E in fondo lo è.

Al pari di questo c’è poi l’altra faccia di una stessissima medaglia che si traduce in quelle esagerazioni linguistiche sul “volere il bene della città” … senza poi sapere mai a chi davvero si deve o meno voler bene, e cosa davvero renda bello o meno questo posto. C’entra con la legalità? Si.

Sarebbe un bel sentire se la politica provasse innanzitutto a volersi bene prima di dichiarare amore per noi cittadini. E ci si vuol bene se si ha coscienza profonda di sé stessi, facendosi domande, dichiararsi senza risposte e da lì partire per osservare meglio, senza i fumi del troppo amore, il luogo in cui si vive e per il quale si immaginano amministratori.

Ho imparato dai bambini a fare domande; le domande sono il motore che può accendere il desiderio, che ci fa sentire attenti e senza pregiudizi. Una comunità, quella della città di Manfredonia, che da molto tempo si sente delusa, frustrata dall’assenza di politiche, ingabbiata in un giro di parole roboanti sull’amore, sulla bellezza, sul possiamo essere… senza poi averne la percezione reale e scontrandosi con una sempre più grave mancanza di servizi primari.

Nasce così quel sentimento che ci fa sentire “mancanti”. E le mancanze portano disaffezione, desiderio di fuga e troppo spesso sfiducia nella politica, nelle istituzioni, nella legalità. A quanti sarà capitato di chiedersi se serve essere onesti sempre, o, in un sistema fatto di urgenze, chiedere un favore e passare avanti non sembra più neppure illegale o disonesto; è soltanto un adattarsi all’esigenza di restare vivi. Quando lo Stato, le Istituzioni soffrono di una forma di sordità, l’individuo non ragiona più come parte di una comunità attenta, ma come un “solo” che deve salvarsi. In questi contesti la criminalità ha gioco facile lasciandoci soli nella lotta e nelle scelte»

Si può costruire una drammaturgia su Manfredonia e sul recente scioglimento e il caos politico successivo? O la teatralizzazione si ferma all’Enichem, ancora troppo attuale nel discorso pubblico?

«A me negli anni è capitato sempre di raccontare storie. L’Enichem e i fatti del 1988-1989 in sé non erano una “storia”, lo è diventata quando abbiamo iniziato ad ascoltare le donne che avevano direttamente vissuto quel movimento di lotta, quando quelle donne ci hanno raccontato le loro singole vite, quella vicenda larga di una città è diventato un testo drammaturgico, uno spettacolo. La storia di una donna e di alcune di loro in modo specifico: madri, sorelle, amanti che hanno trasformato il corso della propria vita e hanno provato a cambiare le sorti della città in cui vivevano.

Non saprei proprio se dietro uno scioglimento per possibili infiltrazioni mafiose di questa città ci siano i presupposti di un racconto… magari è ancora il tempo dell’inchiesta, è il tempo per chi fa un altro lavoro di mettersi a centrare quali siano le condizioni economico/ sociali che portano una città a non credere più nella via della politica sana, a non mettersi in gioco, a lasciare che il qualunquismo del sono tutti uguali diventi l’unica risposta».

Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”, con una citazione di Piero Calamandrei proponete per le scuole un programma alto e innovativo. È più facile oggi immaginare stagioni per il teatro dei ragazzi?

«Il teatro per i ragazzi vive un fermento sempre attivo di ricerca. È si, lo spazio dell’adattamento di alcune Compagnie teatrali che non trovano di meglio da fare, ma la maggior parte, trova nel teatro per le nuove generazioni la possibilità per meglio sperimentare, innovare la scena contemporanea, innovarsi. Per questo credo che pensare / essere teatro per i bambini e poi per i ragazzi sia un compito difficilissimo. I bambini sono quella parte di una comunità che desidera profondamente, si immerge senza ostacoli nella scena, nella storia nelle immagini che l’artista usa per aprire un vero e proprio dialogo con loro. Non è per niente facile, programmare o produrre spettacoli per i più piccoli, sono più che spettatori, sono parte della scena, sono parte di quell’azione teatrale».

Tanti spettacoli mescolano i codici del teatro con quelli dell’audiovisivo. È oggi imprescindibile il mix sul palco per trattenere il pubblico?

«Non credo ci sia una regola non scritta che impone l’uso dell’audiovisivo o del multimediale nel teatro. Credo faccia parte della ricerca delle singolarità artistiche e non di una moda. Quando lo è si vede e viene piuttosto spesso smascherato l’artificio. L’utilizzo o meno delle tecnologie nuove, e non solo dell’audiovisivo ma anche dell’illuminotecnica o dei suoni sono possibilità in più nelle mani, nelle idee degli artisti. Sono strumenti che posso sostenere, rendere immersivo un lavoro, possono… ma non devono e non certo sempre ci riescono».

I classici e la vostra esperienza di teatro di comunità. Come rispondono i corpi dei ragazzi e delle ragazze? Vi hanno comunicato di aver avuto dei cambiamenti nelle loro vite? E se sì, quali?

«I corpi delle ragazze e dei ragazzi sono corpi in trasformazione, sono energia pulita che muove il domani. Questo sono per me, sono l’aspirazione di ciò che non si è ancora ma ci sono tutti i presupposti dell’adulto che sarà. Così la pratica del teatro con loro è un mettersi in mezzo a loro, cercarne gli sguardi.

Molto spesso i ragazzi continuano negli anni a frequentare il teatro anche altrove, a scriverci, un filo di comunicazione che con molti di loro non si interrompe dopo i laboratori. Cambiamenti? Non saprei, certo ci parlano con parole nuove. I cambiamenti sono processi lenti che scaturiscono da tanti fattori diversi, noi possiamo essere un pezzo di mondo in più da scoprire, da vivere, questo si».

Qual è il vostro prossimo progetto? Può essere un percorso rivolto anche agli anziani, in una società che invecchia e che, come anche nel caso di Manfredonia, si trova anche in situazioni di cronaca orribili?

«Anche noi stiamo invecchiando. I nostri nuovi progetti riguarderanno ancora il mondo dei bambini da una parte con una produzione tra musica e poesia per i più piccoli. Ma è tutta da costruire e non posso aggiungere molto perché poco ne so ancora. Ci sono molte attività già programmate e previste. Tante che riguarderanno proprio questa parte di sud.

Rispetto agli anziani, mi piacerebbe avere tempo per ascoltarli di più, ma sceglierei con cura gli anziani da ascoltare. Troppo spesso ho lamentato una carenza di “vecchi saggi” in questa città, in questo territorio. Ecco farei attenzione a cercare quegli anziani che, con la serenità degli anni ormai addosso, possono rendere vivo un mondo che non c’è più e raccontarmi quel che non so ancora. Il teatro con gli anziani, i rifugiati, i carcerati… insomma si certo, ma proverei per una volta a guardare alle persone senza una connotazione sociale, economica, anagrafica.

I fatti di cronaca, forse, ai quali fai riferimento, sono esattamente quel senso di “solitudine” di cui parlavo prima. Una forma di abbandono dettato da un individualismo incontentabile e assetato di visibilità. Per questo il teatro, i nostri progetti proveranno, finché ne avremo la possibilità e la forza, a rompere quelle larghe sacche di solitudine, a proiettarsi in una dinamica conoscitiva, di ricerca e di sperimentazione nel popolare. Cercheremo di fare un teatro che sia si popolare e ma anche di profonda ricerca. Un teatro mai pago della sicurezza della tradizione, mai seduto su qualche successo temporaneo, mai ripiegato sul già noto, sul già fatto, il già detto. Ci proveremo ancora».

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