La Nave Dolce, una narrazione sospesa

by Fabrizio Stagnani

E’ con una dizione piacevolmente ineccepibile che Massimiliano Di Corato, su di un divano sorseggiando una tazza di tè hope sun, svela i retroscena dello spettacolo teatrale “La Nave Dolce”.

Sarà lui, solo insieme ai suoi tre personaggi, sul palco dell’appena da poco restituito alla cittadinanza Teatro Piccini, sabato 15 febbraio, a rievocare le vicende del mercantile dal quale sbarcarono sul molo del porto di Bari, nel 1991, ventimila albanesi in fuga dal regime comunista che li opprimeva.
Quattro inverni fa è proprio da una camminata dicembrina lungo quella lingua di terra artificiale che è partita la convinzione di voler far fiorire questo progetto. L’attore con lo sguardo all’orizzonte, alla terra sotto i piedi quello della regista al suo fianco.

Lui, venticinquenne, di genitura barese, diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine, poi masterizzato al Corso di Alta Formazione del Teatro delle Passioni a Modena. Daniela Nicosia, lei, catanese di nascita, romana di crescita, bolognese teatralmente, parlando  degli studi seguiti alla Scuola Alessandra Galante Garrone, ora di sede bellunese per lavoro con la Compagnia Tib Teatro. Quest’ultimo luogo è quello che ha fatto matchare i due. Massimiliano era li per un provino, portava per presentarsi un suo pezzo, adesso considerato da lui stesso, cellula embrionale di quello che è diventato lo spettacolo “La Nave Dolce”. Fu preso! 
Adesso, se non fosse già chiaro, qui si parla di due “terroni”, meridionali detto più diplomaticamente, di fatto anche loro migranti, che si sono formati lontano dalle loro rispettive patrie e che ora stanno orgogliosamente tornando a lavorare in grande spolvero nelle terre natali. Ma si parla anche di un venticinquenne al suo debutto da portentoso esordiente con un one man show sulle prestigiose assi dello storico teatro bomboniera del capoluogo pugliese con la narrazione di un fatto di cronaca, una vicenda avvenuta quando neanche era stato dato alla luce. Molteplici le ragioni intrinseche a questa scelta. La purezza della teina assimilata dall’hope sun funge da siero della verità e fa rivelare che per l’italia, e non solo, il più grande sbarco d’immigrati da un’unica nave riletto a distanza di anni, con gli animi sedati dalle ansie, può servire come termine di paragone rispetto a quanto i fatti di cronaca odierni ci facciano preoccupare.

“Se si parlasse ora di Lampedusa sarebbe inevitabile cadere in argomentazioni politiche. Analizzare un fenomeno similare ma ormai storico aiuta ad avere un punto di vista più libero. Gli albanesi erano ventimila, come se l’intera popolazione di Gallipoli in blocco si innestasse di forza in quella di Bari. Erano mussulmani. Eppure ad oggi non risulta ci siano strascichi negativi del loro passaggio. Non siamo stati invasi, siamo rimasti italiani. Nessuna delle nostre tradizioni si è persa a causa del loro arrivo.”, Massimiliano è anche coraggiosamente pronto ad asserire in scena che “I panzerotti migliori a Bari ora li fanno gli albanesi…si, a Japigia!”, e che ormai a tirare su i nostri muretti a secco sono rimasti loro.    
Non si arriva ad essere così certi di quel che si vuol fare e dire senza delle solidissime basi. Di Corato risulta per questo spettacolo anche drammaturg. La forza della sua determinazione è nelle approfondite ricerche che ha condotto. Ogni fonte è stata disassemblata e riformulata insieme alle altre, Biblioteca Nazionale per le pagine de “Il Manifesto”, Teche Rai per i servizi d’epoca attraverso i quali lo ha guidato Maurizio Brunialti, gli archivi dei due studi fotografici più importanti di Bari, Vittorio Arcieri e Luca Turi, interviste dirette in prima persona, tra cui quella a Eva Mexi, altri spettacoli teatrali, ma anche film. A chi ha seguito gli sviluppi della vicenda della Vlora o semplicemente è cultore di cultura non sarà sfuggito che il lavoro di cui qui si sta parlando ha lo stesso identico titolo di quello firmato su “pellicola” dal regista Daniele Vicari e sceneggiato da Antonella Gaeta e Benedetto Atria nel 2012. Nessun plagio! Le due produzioni sono in ottimi rapporti, Vicari, venuto a conoscenza dello spettacolo teatrale si è manifestato felicissimo all’idea che quella storia continui ad essere narrata, e la produzione Indigo Film, nonché l’Apulia Film Commission, hanno firmato carte che licenziano l’utilizzo di parole ed immagini. 
Sul palco non si vedrà un documentario recitato, una mera lettura. Senza spoilerare troppo, considerato anche che in merito agli escamotage scenografici neanche il tè cinese è riuscito a sciogliere il riservo, si presenteranno un bambino di nove anni che si trovò a vivere quei giorni e un signore, maturo, colto ma diffidente…sino ad un certo punto, entrambe baresi, ma anche, inevitabilmente, una di quelle anime che occupò con tutta la sua fiducia qualche centimetro quadrato di uno dei ponti della nave già carica di zucchero cubano. La chiavi di svolta per tenere il patos alto sarà la sospensione. Gesti, recitazione, narrazione, storie, tutte sospese, come l’equilibrio della sedia che sarà al centro del palco, come la Vlora quella notte nell’Adriatico, come l’ignoto verso il quale venivano condotti disperati assetati di libertà.  

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