La storia (umana) di Alessandro Barbero: “Faccio trasparire la mia passione in modo molto diretto”

by Felice Sblendorio

Oramai è un successo fuori “bolla” quello di Alessandro Barbero, il professore di storia medioevale seguitissimo sul web. Dopo una formazione e una fama strutturata offline seguendo le orme dei grandi storici Giovanni Tabacco e Massimo Salvadori e poi proseguita con ricerche, innumerevoli saggi, una cattedra all’Università del Piemonte Orientale, un Premio Strega nel 1996 e la collaborazione in tv con Piero Angela, il medioevalista piemontese deve all’online, e in modo specifico ai podcast e al passaparola fra i fedelissimi, il suo successo virale di performante divulgatore storico, intellettuale umanista, narratore.

Come ha scritto su Rivista Studio Arnaldo Greco, “Barbero non si discute, si venera”. Una venerazione, appunto, che ha reso Barbero un nume tutelare della passione storica, capace di fidelizzare e incuriosire lettori e ascoltatori alle vicende dei suoi condottieri, papi, battaglie, armi, guerre, barbari e soldati. Una drammatizzazione teatrale della storia, quella del professore, che non banalizza mai, ma amplia il racconto ancorandolo ai dettagli, ai vari percorsi da approfondire, ai tratti valorizzati in quella storia umana che rivela il punto di vista dell’uomo e dell’accademico. In attesa dell’uscita del suo saggio su Dante per i tipi di Laterza, bonculture ha intervistato Alessandro Barbero in occasione dei Dialoghi di Trani.

Professore, in questi mesi la storia è ritornata al centro del dibattito pubblico a causa di una serie di discussioni sull’utilità di distruggere i simboli e le statue dedicate a chi sosteneva una visione di mondo intollerante, coloniale, razzista. In un tempo che ricodifica continuamente le proprie sensibilità, è possibile costruire una memoria collettiva?

È un grosso problema. Io non credo che la memoria collettiva sia la soluzione. Tentativi di costruire una memoria collettiva ci sono stati in momenti critici della nostra storia: ogni Paese, infatti, a un certo punto si è costruito una sua memoria collettiva. In Italia è successo dopo il Risorgimento con i libri scolastici, i monumenti, i nomi delle vie, le feste nazionali, ma oggi non c’è più un accordo condiviso sul significato di questa memoria. Le memorie contrapposte producono solamente spaccature. Si potrebbe costruire non una memoria condivisa – che non esiste, perchè ognuno ha la sua – ma una storia comprensiva delle ragioni di tutti. Questa sarebbe la vera soluzione, ma mi rendo conto che un’utopia.

Dopo l’abbattimento di alcune statue, soprattutto in America con l’operato dei manifestanti di Black Lives Matter, è partita una rivoluzione di significati. Lei ha contestato l’utilizzo della storia e dei simboli del passato per processare l’attualità. Perchè l’ha definita una difesa «infantile»?

Le statue ricordano qualcosa di memorabile e, naturalmente, nel momento in cui vengono poste hanno un’intenzione positiva perchè rispecchiano dei valori collettivi. Quando viene posta la statua di un personaggio storico autonomamente lo si presenta come un modello. Ogni statua rappresenta un modello di una certa epoca, ma poi c’è un momento scontato in cui nessuno si riconoscerà più interamente nei valori che quel personaggio incarna. Se io guardo la Statua di Marco Aurelio in Campidoglio cosa devo pensare? È un capolavoro che rappresenta un grande Imperatore che ha lasciato un segno nella storia, oppure devo ricordare solamente che ha perseguitato i cristiani, ha governato un Impero che si reggeva sulla schiavitù e sulle guerre di sterminio? Se in base a tutto ciò decidessi di togliere quella statua, ragionerei come chi guarda quella di Churchill e dice: “Sì, sarà stato un grande, ma è un razzista: abbattiamola”. Quest’idea che erano tutti brutti, sporchi e cattivi, e solamente noi dopo anni siamo nel campo giusto, credo sia infantile.

Il terreno di scontro di queste rivendicazioni è lo spazio pubblico. Riconfigurare e articolare il torto subito è già un traguardo politico?

La discussione e la mediatizzazione di un problema è già un successo politico. In questo caso, sfortunatamente, ci potrebbe essere il rischio che tutto si esaurisca in una soddisfazione apparente. È un bel traguardo distruggere le statue degli schiavisti, ma nel momento in cui la condizione politica e sociale di quelle minoranze rimane identica mi chiedo se sia un successo simbolico oppure una dispersione di energie. Il dubbio rimane perchè c’è sicuramente un traguardo politico raggiunto, ma anche il rischio di una risoluzione puramente illusoria, di facciata.

Lei è un medioevalista. La storia quando è entrata nella sua vita?

Da bambino, quando ho imparato a leggere. Ho cominciato con i libri illustrati che parlavano soprattutto di storia militare. Da adulto, invece, ho letto i tascabili sulla Seconda guerra mondiale. Il Medioevo è arrivato dopo, con “La società feudale” di Marc Bloch.

Dopo la ricerca e la divulgazione, da un po’ di anni è una star del web: visualizzazioni incredibili delle sue lezioni, podcast seguitissimi, condivisioni virali delle sue frasi sui social. Si è spiegato la ragione di questo successo?

Francamente no. Mi dicono che io abbia una voce magnetica, ma la cosa che sento più frequentemente, e credo sia vera, è che io faccio trasparire la mia passione in modo molto diretto. Tutti gli studiosi hanno una passione che li divora. È pur vero, però, che molto studiosi questa passione la proteggono per timidezza o per carattere. Io, forse, sono un po’ più esibizionista e non ho paura di mostrarla. Per il resto, non mi spiego niente: la storia è la disciplina più appassionante che ci sia, quindi non c’è nulla di strano in questo interesse popolare.

Dopo anni di studi e ricerche ha capito perchè la storia è così intrecciata alla nostra esperienza umana?

È una cosa che ora mi sembra ovvia, ma effettivamente non lo è. Anche io, come tutti, pensavo che la storia fosse una materia fra le tante, una delle molteplici discipline del sapere. Poi ho imparato che bisogna distinguere lo studio della storia, ovvero la disciplina con le sue regole e accortezze, dalla storia come realtà di tutto ciò che gli esseri umani fanno: qualsiasi cosa. Gli storici si occupano soprattutto di quello che fanno gli uomini potenti, degli avvenimenti che coinvolgono una moltitudine di persone, ma anche della quotidianità di un cittadino: un singolo atomo della storia che rientra in quella più generale e ampia.

Lei non parla solo di storia ma di storie, particolari, aneddoti, dettagli minori che avvicinano eventi e personaggi lontanissimi. Scatta così la curiosità?

Naturalmente. Il lavoro dello storico è quello di prendere tutta la realtà, tutta la realtà umana che lo circonda, per poi scavare attorno dei sentieri da percorrere. Ogni volta che studio un argomento faccio un lavoro di selezione. All’interno di un mare ininterrotto di cose, dove tutto è connesso e collegato, prendo dei pezzi e li collego fra di loro evidenziandone le relazioni. Lo si può fare in modo asettico, ad esempio raccontando un periodo attraverso i numeri e i dati, oppure narrando l’esperienza umana. Più ti cali dai grandi flussi complessivi, generali e profondi, e più ti avvicini alla dimensione della mentalità, del vissuto, di quello che la gente provava in quel determinato momento storico. Così, gli aneddoti e gli episodi diventano fondamentali non per un gratuito piacere narrativo, ma per rendere ancora più ricco e vitale quel pezzo di realtà di cui ci stiamo occupando.

La storia, quindi, è sia nelle grandi guerre che negli orari dei pasti?

È tutto questo, sì. Dobbiamo dosare la dimensione dei grandi avvenimenti con le piccole cose di tutti. La quotidianità interessa soprattutto quando ci si allontana da quello che si vuole studiare. La caratteristica dello storico è che si appassiona di cose che nella sua contemporaneità ignora completamente, riscoprendole interessanti quando sono trasferite al passato.

Sembra che ci siano molte affinità con il caos, con l’infinito. Ma c’è un senso ultimo della storia?

La storia di per sé non ha un senso, non è diretta da qualche provvidenza, non ha un obiettivo finale e non ha neppure una periodicità logica che ci possa far intravedere una certa direzione, un movimento netto. Nessuno di noi oggi pensa a una logica o una razionalità della storia. La storia è paragonabile alle nostre vite. Ognuno di noi sa bene che non può essere programmata, non ha un senso preciso e che tutto coesiste fra i progetti, le aspettative e il caso. La storia è la stessa cosa: ci sono i progetti, i tentativi di indirizzo, i grandi uomini e le loro imprese, ma poi c’è soprattutto l’ignoto, il caso e il caos.

La verità ha un ruolo?

La verità esiste, ma è molto difficile conoscerla tutta. La verità esiste: lo ripeto perchè è una parola che fa un po’ arricciare il naso considerando la soggettività che trascina con sé. Di fronte a un avvenimento ogni persona reagisce in modo diverso e ognuno di noi lo reinterpreta. Tuttavia, questo non distrugge una verità intrinseca ai fatti. La verità esiste, e l’unico dovere dello storico è quello di distinguere le cose di cui siamo sicuri che siano accadute da quelle che noi consideriamo ipotesi, congetture, ricostruzioni soggettive.

È una presunzione consolatoria l’idea che la storia ci possa insegnare qualcosa?

Sarebbe consolatoria se noi ci illudessimo che a forza di studiare la storia si possa smettere di sbagliare. Ovviamente non è così perchè lo sbaglio caratterizza la nostra natura. È assolutamente vero, invece, che la storia aiuta a stare al mondo come qualsiasi altra attività intellettuale perchè, essendo l’insieme di tutte le cose fatte da noi umani, ci permette di comprendere meglio chi siamo. La storia ci comprende, rendendoci meno indifesi di fronte alle nostre scelte e ai problemi che ci travolgono.

Gli storici studiano l’uomo nel tempo: ma qual è il giudizio della storia sugli uomini?

La storia non tende a dare giudizi proprio perchè studia qualcosa di così complesso come la natura umana. Mentre noi abbiamo una certa tendenza a classificare rapidamente le persone che incontriamo, la storia analizza con difficoltà le sfumature di ognuno di noi. Giudicare allora diventa assurdo: lo si può fare con le azioni, in certi casi con evidenza assoluta su alcuni sbagli, tragedie o crimini, ma sugli uomini è sempre difficile stabilire un giudizio.

Il coronavirus, come tutte le epidemie, sta realizzando mutazioni e rivoluzioni. Oggi cosa abbiamo capito: l’imprevedibilità del futuro non è governabile?

Esattamente: il futuro è incontrollabile. Si può essere più o meno pronti a quello che verrà, ma mai del tutto preparati. Prevedere il futuro, il sogno dell’umanità dai tempi più antichi, è sempre un tentativo fallimentare come testimonia questa pandemia.

In questo intricato presente sembra che la storia sia tornata a occupare una posizione centrale nelle dinamiche mondiali. “La fine della storia” di Fukuyama, che teorizzava un processo di evoluzione globale, è stata un’illusione o una distorta visione del progresso?

Il buon Fukuyama forse in un senso stretto aveva ragione. Per un secolo la storia è stata guidata dalla lotta fra il capitalismo e il comunismo. Quando lui teorizzò la fine della storia quella lotta era finita: aveva vinto il capitalismo, aveva vinto l’Occidente. In quei termini, dunque, provvisoriamente aveva ragione. La pandemia, invece, ci ha ricordato brutalmente che anche qui la storia si può riaprire consegnandoci cose inaspettate che poi ricorderemo per molto tempo. L’ultimo avvenimento simile è stato l’11 settembre 2001. Poi da qualche decennio l’Occidente si era un po’ addormentato con l’idea che i grandi avvenimenti non ci avrebbero raggiunto. Quest’illusione ora è decisamente tramontata.

Piegando Marx al presente, dal suo punto di vista oggi qual è il motore della storia?

È difficile dirlo. Forse ci sarà uno scontro fra l’America e la Cina, oppure tornerà in primo piano la conflittualità interna nelle nostre società spinta dal bisogno di temperare il capitalismo trionfante o di intervenire sulle molte disuguaglianze. In apparenza sembra sia uno scenario lontano perchè le nostre società, nonostante la povertà crescente, non conosce più una vera conflittualità interna. Bisognerà attendere per capire se c’è questo caos dietro l’angolo.

Un’epoca di epidemie è da escludere?

In uno scenario apocalittico un’epoca di epidemie più devastanti del covid-19 provocherebbe sicuramente questa conflittualità interna che ho evocato. In passato, però, anche i virus più spaventosi non hanno mai impedito all’economia di continuare a fare affari, agli Stati di proseguire le loro guerre, all’arte di progredire. Le epidemie hanno sempre visto l’umanità ricominciare. Questo non è così consolante, perchè ricominciano sempre i superstiti. Non credo, tuttavia, che i virus riescano a definire un’epoca. Dopo il contagio, come sempre, resterà una domanda fatale: “E poi, cosa succede”?

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