«L’anima fresca» di Burambò e la vittoria al Premio Eolo: «Esterina Centovestiti sollecita il confronto con il tumulto emozionale di adulti e bambini»

by Anna Maria Giannone

C’è un teatro che parla a tutti, ci sono storie che da un palcoscenico guardano dritto negli occhi il bambino che siamo stati e che vive nel nostro essere adulti. Davanti a questi racconti nasce un legame che attraversa le generazioni, che ci tiene assieme, in una relazione magica che il teatro ha ancora il potere di creare. Il così detto teatro ragazzi, pensato per rivolgersi a un pubblico di bambini e famiglie, spesso si rivela arte universale, capace di superare l’etichetta di linguaggio adatto solo a i più piccoli. In Puglia questo valore è ben noto grazie al lavoro di tantissime compagnie il cui talento è riconosciuto in tutta Italia. La corrispondenza amorosa fra Puglia e teatro per le giovani generazioni è confermata, edizione dopo edizione, dal Premio Eolo, il più importante riconoscimento del Teatro Ragazzi in Italia. Anche per quest’anno la quota pugliese c’è. Due i riconoscimenti consegnati durante la cerimonia dello scorso 4 maggio al Teatro Munari di Milano: menzione speciale alla leccese Compagnia Factory per Paloma, ballata controtempoe Migliore Spettacolo di Teatro Ragazzi a Esterina Centovestiti, produzione della compagnia foggiana Burambò, nata dalla collaborazione con la compagnia Armamaxa e la residenza Teatrale di Ceglie Messapica.

Realizzato e messo in scena in pieno lock-down , lo spettacolo di Burambò porta in scena la storia di Lucia, bambina di V elementare alle prese con l’arrivo in classe di Esterina, una nuova compagna cui, per condizione economica ed estrazione sociale, sembra negata la possibilità di scegliere la propria vita e che, come sempre accade nelle dinamiche infantili ed adolescenziali, viene per questo emarginata e schernita. Una storia vicina a tanti, che attraversa quell’età fragile in cui ci si affaccia al mondo e si vive in un tumulto di emozioni nuove e difficili da decifrare, premiata proprio per la sua capacità di “entrare nelle viscere dell’infanzia” e “per ribadire a noi, ma soprattutto ai ragazzi, che ciò che appare a volte non è come davvero è, e che bisogna gustare tutto ciò che la vita ci regala, senza pregiudizi”.

Abbiamo intervistato Daria Paoletta, attrice e anima dello spettacolo e Enrico Messina che ne ha curato luci, scena e regia.

Da alcuni anni a questa parte è una costante la presenza di compagnie pugliesi fra gli insigniti dell’Eolo Award. Quali sono le congiunture favorevoli che alimentano questo valore del teatro ragazzi pugliese?

D. Siamo presenti in maniera massiccia nelle rassegne di teatro italiano in genere, un dato interessante che parla di un percorso intrapreso qualche anno fa. Mi riferisco a tutto il cammino iniziato con il progetto Teatri Abitati. Io stessa grazie a quel progetto mi sono trasferita a Ceglie Messapica e ho trovato un teatro aperto, vivo. È il terzo Premio Eolo che vinciamo, e come noi tante compagnie pugliesi hanno ricevuto riconoscimenti importanti che ci raccontano di come la Puglia sia diventato un bacino di prodotti preziosi. Nonostante le difficoltà nel nostro settore conserviamo uno spirito di unione.

E. Il primo Premio Eolo vinto da noi pugliesi risale 2009 con uno spettacolo di Koreja. Da allora abbiamo vinto per ben nove volte come miglior spettacolo, e ancora come miglior drammaturgia, miglior progetto… li ho contati: sono diciotto premi in totale! Nelle ultime cinque edizioni i pugliesi hanno sempre ricevuto un riconoscimento. Questo è sicuramente, come diceva Daria, frutto di una politica virtuosa. Tutte le compagnie premiate negli ultimi anni, Factory, Burambò, Luna nel letto, sono cresciute grazie ai Teatri Abitati. Temo però che questo processo negli ultimi anni sia stato minato. Oggi viviamo uno strascico positivo che sta progressivamente perdendo nutrimento. Le compagnie vanno avanti a fatica ma soprattutto non c’è un ricambio. A chi lasceremo questo teatro?

Non riuscite a intravedere la continuità anche con le generazioni successive alla vostra?

E. Facciamo fatica a vedere nuove compagnie, anche noi gruppi più maturi siamo in difficoltà, in questo momento non abbiamo ancora una Legge regionale. Le compagnie che potrebbero farsi carico di diventare tutrici delle nuove generazioni non riescono a farlo. La condizione è premiante del lavoro fatto ma anche cartina al tornasole del fatto che se continuiamo così tutto questo si fermerà inevitabilmente.

In questi anni di confronto con gli spettatori cosa è cambiato? Come è cambiato il vostro pubblico?

D. Lo trovo sempre più preparato e questo è sorprendente. Le persone che incontro a teatro hanno bene in mente che esperienza stanno vivendo. Tra l’altro vedo fra gli spettatori non solo famiglie ma anche giovani, con o senza figli, anziani. Sempre di più spesso sento dire che il teatro ragazzi porta in scena cose molto più interessanti del così detto teatro adulti. Questo è dovuto non solo ai linguaggi, ma anche alla relazione che ancora conserva con il pubblico, più immediata, più sincera. Uno spettacolo di teatro ragazzi fatto bene è capace di parlare a tutti, salvaguardando questa sua anima fresca. Un valore importantissimo di cui abbiamo sentito fortemente la mancanza durante la pandemia: siamo stati costretti a interrompere il lavoro con le scuole e loro hanno perso noi, in questa assenza reciproca ci siamo resi davvero conto di quanto questa relazione sia troppo preziosa per tutti.

E. La nostra esperienza nella gestione del teatro ci fa dire con cetezza che laddove c’è lavoro sul territorio il pubblico in teatro c’è. Se manca un punto di riferimento i teatri non possono essere frequentati. A Ceglie Messapica abbiamo numeri di spettatori che sorprendono anche noi stessi, è importante la continuità della presenza.

La relazione fra il teatro e la scuola che momento sta attraversando?

D. Io ho la sensazione che abbiamo un ultimo passo da compiere anche se difficile da farsi, forse perché siamo un po’ soli. Per favorire la relazione con il mondo della scuola è necessario che intervengano più voci. C’è necessità che interagiscano al meglio le amministrazioni, la scuola, il teatro, i genitori. Una rete che in questo momento abbiamo difficoltà a creare, eppure sappiamo tutti che là c’è una ricchezza incredibile. Noi, dal canto nostro, ci siamo armati di coraggio, e dopo uno scorso ottobre tentennante e un novembre devastante quest’anno vorremmo ripartire proprio dalla scuola. Stiamo immaginando di integrare nella compagnia una persona che si occupi solo di questo, proprio per implementare questa relazione.

E. Bisogna anche far capire agli insegnanti che non c’è necessità di sostituirsi ai teatranti. A volte i percorsi di laboratorio nelle scuole sono tenuti da non professionisti, questo può avere un effetto molto controproducente, allontanando i ragazzi invece che avvicinarli al teatro. Spesso la ragione è meramente economica e questo è un peccato. Il grosso del nostro pubblico l’abbiamo formato proprio con il laboratori, per bambini e per adulti, percorsi di conoscenza del teatro da cui si viene fuori come spettatori consapevoli e appassionati. C’è un signore, Giuseppe, che per cinque anni ha seguito con noi dei laboratori, oggi non si perde uno spettacolo, di qualsiasi genere, la sua presenza in platea è una certezza. Questa è formazione del pubblico.

Quale urgenza vi ha mosso nella scelta di mettere in scena la storia di Esterina e Lucia?

D. Più di una, questa storia ne contiene al suo interno tantissime altre. Innanzitutto Esterina parla di scuola, in un momento in cui è molto difficile mantenerla viva e difenderla, parla della scuola come la ricordiamo noi, quella dove si impara a vivere, dove nascono le domande, le relazioni. Abbiamo scelto di affidare la narrazione al punto di vista di una adulto che guarda all’indietro, nel suo passato, e rivive le cose che forse allora non aveva capito e che oggi sono più chiare. Mi sorprendo di come pur essendo un raccolto apparentemente adulto anche i bambini più piccoli lo vivono con totale empatia riuscendo a sentire anche il dolore di un’amicizia mancata, la sofferenza per un dubbio che ti assilla, la difficoltà a capire cosa sia giusto e cosa sbagliato. Di questo spettacolo amo profondamente l’assenza totale della retorica e del giudizio. Questa donna che racconta non condanna nessuno, semplicemente parla di tutti i personaggi che hanno avuto un ruolo nella vicenda , così come li ricorda. Non c’è un buono e un cattivo e un bambino in questo si rivede molto. C’è una grande umanità che alla fine dello spettacolo ci porta ad aver sorriso e pianto nello stesso momento.

Uno spettacolo che si fa portatore di una complessità che spesso viene aggirata nel mondo dell’infanzia. Tendiamo a semplificare nella relazione con i bambini.

D. Ci sorprende quanto i bambini siano complessi. Spesso noi adulti li trattiamo come piccoli, quando invece sono creature in totale ascolto, in esplorazione, hanno da suggerire tanto e noi invece li ascoltiamo poco. In questa storia i bambini si identificano molto, perché loro in fondo sanno chi sono, è solo difficile trovare le parole per dirlo. Il teatro è un modo per venire fuori, per dire “ho le stesse domande anche io”. Quando mi fermo a parlare con i bambini dopo lo spettacolo vengono fuori tantissimi racconti personali da condividere.

E. Lo spettacolo crea una comunicazione forte con l’universo delle emozioni. Gli adulti sono tremendamente più elementari dei bambini, dopo lo spettacolo li troviamo in platea a piangere. Lo spettacolo sollecita tantissimo questo confronto con il tumulto emozionale, tipico di quella fase di cambiamento che fra i 10 e 13 anni ci immerge in un grande caos, in cui è difficile mettere ordine fra giusto e sbagliato. I bambini si pongono tante domande, noi adulti spesso siamo già nella fase del rimpianto, per non aver trovato le risposte giuste.

In scena ci sono solo una cornice e tre sedie. Che valore hanno questi oggetti per la narrazione?

D. La messa in scena è assolutamente elementare, lo spazio è molto definito. Ogni piccolo movimento fa cambiare gli ambienti e le situazioni. Venendo dal teatro di figura trovo che l’oggetto in scena debba essere davvero necessario e debba potersi trasformare. Abbiamo lavorato su questo, su piccoli segni che potevano avere la capacità di mutare lo spazio e quindi il punto di vista. Tre sedie, una cornice e il lavoro delle luci sono quello che serve a questo spettacolo di vivere.

E. Nei miei spettacoli ho sempre scelto ambientazioni poco realistiche, usando pochi oggetti che avessero la capacità di evocare. Questo potere degli oggetti di stare nello spazio e evocare situazioni semplicemente con un movimento, un taglio della luce è prezioso. In Esterina le sedie sono quelle dei bambini in classe, ma anche del professore o, portate fuori dalla cornice, diventano il soggiorno della casa di Lucia. Basta una sedia per creare un ambiente, lo spettatore costruisce il resto.

Dallo spettacolo è nato anche un gioco da tavola. Come è venuta fuori questa idea?

E. Taraxe è un gioco nato dallo spettacolo, un progetto realizzato con una casa editrice Progetti per Comunicare. Stavamo pensando a un modo per veicolare i contenuti dello spettacolo e poi è venuta fuori l’idea del gioco, realizzato da un team che oltre a noi a visto collaborare un arte terapeuta, un graphic designer, un insegnante… Taraxe affronta il racconto delle emozioni, ma spostando il fuoco dai giocatori agli oggetti che si incontrano nei luoghi del quotidiano, e che, animandosi sulla suggestione di un suono, di una musica o di un’immagine, diventano protagonisti di brevi narrazioni attraverso cui i giocatori devono riuscire a far indovinare agli altri quale emozione l’oggetto sta provando. In greco antico vuol dire scompiglio, tumulto… e invita grandi e piccoli a farsi narratori e ad affidarsi al casuale tirar di dadi per spostarsi da un lato all’altro di un campo da gioco che in fondo altro non è che la vita stessa, in cui un oggetto, un luogo, un suono e un’emozione combinati insieme creano, sempre, una storia: la nostra.

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