Luca Cicolella e l’incomunicabilità dell’amore in Goldoni: “Porto in scena l’universalità dei classici”

by Antonella Soccio

“Con questi uomini non bisogna esser poi tanto corrive, e non è sempre ben fatto far loro conoscere che si amano tanto”

Eugenia, Primo Atto- Gli Innamorati, Carlo Goldoni

Due giovanissimi e tanti equivoci. Sembra scritto oggi, al ritmo di stories Instagram, Gli Innamorati di Carlo Goldoni, che sarà in scena al Teatro Umberto Giordano per la regia di Luca Cicolella il prossimo 14 febbraio e la produzione del Teatro della Polvere.

Un classico senza tempo, dal concept moderno arricchirà la programmazione di San Valentino della compagnia di via Nicola Parisi. “I due giovani che dicono di amarsi cercano di ferirsi, per egocentrismo, gelosia o rabbia; impareranno nel corso della vicenda come l’amore non sia sempre facile e richieda di mettere in un angolo le parti più brutte della propria anima”, ha spiegato il regista con una carriera lanciatissima allo Stabile di Genova nel presentare lo spettacolo.

A Genova Cicolella si rifà molto all’epica omerica con tante storie al Porto Antico, storie di mare e di avventura.

A Foggia nella doppia veste di attore e regista, dirigerà sul palco Igor Chierici, Stefano Corsi, Simona Ianigro, Ilenia Maccarrone, Sara Maldera, Mimmo Padrone e Bruno Ricci. Assistente alla regia Carlo Baldassini, scenografia di Giovanni Senerchia e Mariangela Lonigro.

Un mese a montare lo spettacolo, 45 giornate lavorative e la voglia, la scommessa, di far diventare Gli Innamorati una produzione del Teatro Pubblico Pugliese per la prossima stagione, in tour per i teatri regionali. Una operazione, come rileva il regista, in cui tutti investono. Attori e compagnia. “Non basta solo lamentarsi, bisogna osare”.

Noi di bonculture abbiamo intervistato l’attore e regista Luca Cicolella.

Luca, come mai ha scelto proprio Goldoni?

È un testo che benché scritto nel 1700 ha moltissime tematiche attuali sulle dinamiche di coppia e sulla non comunicazione che c’è a livello giovanile. Il non parlarsi veramente è il problema che si portano dietro i due protagonisti della commedia: si parlano attraverso servitori e sorelle, ma non riescono ad avere una comunicazione reale.

Ci saranno tutti i personaggi in scena?

In scena ci sono tutti i personaggi, saremo 8 in scena, ho accorpato il servo con Ridolfo.

Hai attualizzato il testo?

Non abbiamo toccato il testo, perché credo alla fedeltà del testo. Non credo che sia giusto fare un adattamento di un copione scritto in quel modo, un autore se arriva a noi in questa versione non credo che vada toccato, sta a noi riscoprire l’universalità del testo. Qualsiasi testo per essere rappresentato deve avere una sua universalità.

Eppure il copione si presta molto ad una interpretazione tutta social della trama, a colpi di equivoci nati sugli schermi e sulle chat.

Per attualizzare il testo non ho utilizzato gli smartphone, ho immaginato un contesto insieme agli attori immaginifico, dove ci sono due contesti sociali che si scontrano: la famiglia di Eugenia che è più gipsy, zingara e la famiglia di Fulgenzio, che è un ragazzo della media borghesia. Un giovane più ricco che si innamora di una ragazza meno abbiente.

L’hai costruito come una sorta di West Side Story?

Sì, diciamo, è una suggestione che abbiamo tratto, sempre facendo fede al testo perché abbiamo notato che questi personaggi usano anche meno bene l’italiano. In quella forma abbiamo immaginato che potessero avere meno cultura.

È nella scenografia anche che si noterà l’attualizzazione?

Avremo una scenografia molto semplice, c’è una poltrona, tutto il resto della casa è libera, si vuol dare la sensazione di una bella casa, ormai accampata. Ci sono delle lucine per una ribalta circense che delimitano lo spazio: useremo il proscenio come una specie di veranda. Ho qualcosa che ho inserito io registicamente, perché nel testo tutta la scena si svolge nel salone della casa.

Tu sei un regista essenzialmente teatrale, hai però citato delle suggestioni felliniane, non hai mai provato il cinema?

Solo come attore, la macchina da presa è un altro mestiere. Ho fatto qualche cortometraggio, il cinema non qualcosa a cui mi sono dedicato, ma vorrei cimentarmi, da attore. Da regista invece mi interessa l’aspetto teatrale, perché amo il lavoro con gli attori.

Sei foggiano, sei venuto spesso in città, rispetto a quello che si vive sulla Quarta mafia, hai mai pensato ad una produzione teatrale di teatro civile che possa mettere in scena questa emergenza e delle storie criminali?

Ci stiamo pensando da un po’ di tempo col Teatro della Polvere. Ovviamente rispetto ad un testo già esistente che può suscitare degli spunti, la nuova drammaturgia va curata nei minimi dettagli perché il rischio di cadere nella retorica è sempre dietro l’angolo.

E non ci sono testi che come per il Sindaco del Rione Sanità di Eduardo ripreso da Mario Martone possono essere attualizzati parlando della Società, la mafia foggiana?

L’ha portata ai giorni d’oggi ma nel testo originale c’era già la camorra. Ad oggi per Foggia non ci sono dei testi che potrebbero rispecchiare la mafia. Sarebbe giusto e bello trovare qualche drammaturgo che abbia la voglia e il coraggio di scrivere e farlo diventare un progetto per crescere insieme.

Ci sono in città drammaturghi capaci?

È un terreno difficile.

I drammaturghi che ci sono, anche premiati, si rivolgono ad altri linguaggi e ad altre storie, mi sembra.

Sì ci sono molti autori, per il teatro ragazzi. Ho visto alcune cose di Marcello Strinati.

Perché ami i classici?

Mi piace l’universalità dei classici, attraverso cui riscoprire l’attualità di alcuni temi. La drammaturgia contemporanea risente del non rifarsi ai classici. Non amo il teatro sperimentale, bisogna rifarsi ai classici per scrivere cose nuove.

È anche un percorso di Licia Lanera. C’è questo recupero, dopo tanta sperimentazione.

Sì si è capito che si deve fare un passo indietro. Avere a che fare col classico ti dà la possibilità di spaziare. Lavorare solo su cose scritte per se stessi è limitante artisticamente. Ho lavorato su Calvino e da anni insieme ad un collega facciamo leggende classiche, riagganciandoci all’epica omerica.

C’è da parte del pubblico un ritorno al classico?

C’è questa esigenza, c’è una mancanza di attaccamento alle radici, una cosa che antropologicamente l’essere umano sente tantissimo. Credo che anche senza averne coscienza se ne abbia bisogno, il pubblico come gli artisti. È un ritorno quasi naturale. Ci sono delle ere: quando si tocca il fondo bisogna ritornare agli esempi. La nostra generazione ha bisogno di questo, lo dico da artista: l’eredità lasciataci dalla generazione precedente è stata un accontentarsi e non di uno scoprire. Riscoprire i classici significa trovare una universalità.

Che rapporto hai con gli attori?

Sono un attore, il mio lavoro si basa sulla relazione e sulla collaborazione di squadra. Anche il miglior attore del mondo non riesce a recitare bene se non ha una grossa relazione con i suoi colleghi in scena.

Li lasci un po’ liberi?

Cerco di dare loro una struttura molto precisa nella quale poi possano divertirsi ad improvvisare e a liberare il loro estro creativo, ma un ottimo spettacolo per sembrare improvvisato deve essere fissato.

Goldoni non lascia nulla al caso.

È assolutamente preciso, è matematica. È stato il primo a voler fissare la scena.

Rimane però la struttura della maschera e del teatro dell’arte nel tuo spettacolo?

Si, le maschere prendono vita in una forma contemporanea.

È una bella sfida, chi altri lo sta facendo?

Certamente registi come Valerio Binasco, che mantengono un’altissima fedeltà al testo, ma lo portano ai giorni d’oggi.

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