Musica Civica chiude con Arkadij Volodos e Roberto Mogranzini una stagione trionfale. Uno fra i più grandi pianisti del mondo incanta il «Giordano» con Skrjabin e Schubert

by Enrico Ciccarelli

Epocale. Non sapremmo trovare altro aggettivo per definire il concerto di Arkadij Volodos, che il 10 dicembre ha incantato il Teatro «Giordano» a Foggia. Era la ciliegina sulla torta dell’edizione numero XIV di «Musica Civica» la rassegna di incontri fra musica e parole ideata e curata da Gianna Fratta e Dino De Palma e sostenuta da diversi partner pubblici e privati. Una rassegna che in questo 2023 è stata particolarmente ricca, vuoi per numero di spettacoli che per la qualità degli stessi.

Il 51enne pianista russo è di quelli che centellinano le proprie apparizioni; è stato un grande colpo degli organizzatori riuscire a inserire il capoluogo dauno nel ristretto carnet delle sue tappe italiane. Perché sia così richiesto lo si capisce agevolmente: le sue mani volano sugli ottantotto tasti e lungo le sette ottave del pianoforte, e non c’è virtuosismo che sembra gli sia proibito (gli appartiene una portentosa revisione del «rondò alla turca» di Mozart, che lo rende di impervia difficoltà, per tacere della sua capacità di suonare da solo la «Polka italiana» di Rachmaninov, che sarebbe un duetto). Ma chi pensa di assistere a una qualche esibizione funambolica, ai giochi di prestigio di un signore dalle lunghe dita e dai polsi snodati resterà deluso.

Volodos ha la reverente umiltà dei grandi, sembra quasi provare meraviglia dell’affetto e delle ovazioni del pubblico; ma suona in quello che ha tutta l’aria di un raccoglimento mistico, di un consegnarsi al supremo mistero dell’armonia, di un entrare in un mondo segreto, in un «a parte» in cui svaniscono platea e palchi e strade e città e sei solo tu e il piano. Forse la tradizionale umiltà scenica dei grandi musicisti (che può tranquillamente convivere con caratteracci, permalosità e manie, si pensi all’immenso Arturo Benedetti Michelangeli) è dettata dal fatto che, essendo più capaci di altri di guardare nelle profondità dell’oceano della musica, ne sono in qualche modo intimiditi.

Concerto diviso in due tempi, inframezzato dalla comunicazione del valente scacchista Roberto Mogranzini, che ha parlato della «armonia in bianco e nero». Il grande maestro internazionale Fide, appassionato didatta e divulgatore, ha difeso la sua idea degli scacchi non solo come gioco e come sport, ma come forma d’arte, tracciando similitudini e suggestioni fra i pezzi bianchi e neri e il bianco e il nero dei tasti del pianoforte. L’idea è bella, ma un po’ stiracchiata (i tasti bianchi e neri cooperano, i pezzi si combattono), mentre è di sicuro fascino la vastità cosmica che appartiene sia alle possibili mosse degli scacchi sia alle possibili note musicali. Come capita a volte a molte persone chiamate a parlare di una disciplina che conoscono e praticano a meraviglia, ci è sembrato che Mogranzini sia un po’ rimasto in mezzo al guado fra il desiderio di farsi comprendere e apprezzare da chi di scacchi ne sa qualcosa, magari a livello dilettantesco, e chi invece non ne mastica nemmeno un po’. Certamente condivisibili, però, le sue iniziative perché anche in Italia lo studio degli scacchi entri nelle scuole come materia curricolare.

Tornando a Volodos, la divisione in due parti del concerto ha anche permesso di apprezzare due momenti diversi della parabola del pianoforte: nella prima parte un fiammeggiante florilegio di Skrjabin, genio isolato e celebrato in vita, frettolosamente dimenticato dopo la morte, che nella crisi di fine Ottocento affatica il suo talento alla ricerca di vie d’uscita da un canone ormai logoro. Le dissonanze, i furori, le svolte espressioniste e simboliste della sua musica sono pane per l’eccezionale virtuosismo di Volodos, per trentacinque minuti senza respiro.

Al rientro si passa agli antipodi, al genio precoce e precocemente scomparso di Franz Schubert, e alla sua Sonata in La minore op. 42. Scritta dal 28enne Schubert nel 1825, tre anni prima della morte, è un luminoso esempio della torsione romantica che il genio austriaco propose della forma-sonata. Un contributo spesso trascurato (di Schubert sono conosciute ed eseguite soprattutto le Sinfonie), ma di cui l’esecuzione meravigliosa di Volodos (quasi impossibile restar seduti, mentre il pianista esegue lo stupendo rondò dell’ultimo movimento) valorizza appieno la grazia e l’importanza. Insomma, una di quelle serate, di cui si potrà dire con una certa soddisfazione «Io c’ero». Grazie, Musica Civica.

Nel video l’intervista a Roberto Mogranzini

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