Nicola Rignanese e la sua Iliade al Teatro dei Limoni, priva di interventi divini ed olimpici

by Enrico Ciccarelli

Una volta tanto, per parlare di uno spettacolo teatrale, è opportuno partire dal pubblico. Nell’ultimo fine settimana abbiamo scoperto che a Foggia ci sono oltre cento pazzi (quorum ego) disposti a rinchiudersi per oltre cinque ore (sia pure inframezzate da due generosi intervalli) in un piccolo e grazioso teatro per assistere non a uno spettacolo di rivista o di cabaret, non ad un musical, ma alla «mise en place» (che potremmo tradurre un po’ approssimativamente con «lettura scenica») della Guerra d’Ilio. Sì, proprio quel poema da liceo che il povero Omero aveva inteso come celebrazione dell’ira di Achille, il guerriero invincibile degli Achei, ed è finito per diventare il poema di Ettore («e tu onore di pianti, Ettore, avrai […] finché il sole risplenderà sulle sciagure umane» dice Foscolo in una sua lirica di qualche risonanza). Non proprio l’originale, ma la sua frantumazione in una ventina di monologhi che lo charmant Alessandro Baricco ha ricavato dalla traduzione prosastica di Maria Grazia Ciani.

Un’Iliade priva di interventi divini ed olimpici, scevra dalle istruzioni su pascolo di armenti e costruzioni di navi (al tempo di Omero i poemi fungevano anche da manualistica per agricoltori, allevatori e carpentieri), ma comunque densa, affidata ad attrici e attori non professionisti. Certo, in regia la firma era di un attore baccalaureato (nel senso di prestigioso, non di baccalà) come Nicola Rignanese, i partecipanti al Corso Avanzato hanno fornito ripetute prove della loro qualità, Roberto Galano è un capocomico di riconosciuto rigore. Con tutto ciò, in un tempo nel quale i teatri rinunciono persino all’intervallo fra gli atti pur di ridurre al minimo il tempo richiesto agli spettatori, la sfida era impegnativa ai limiri del temerario. E si può ben dire vinta.

Platea piena, con presenze assai articolate per anagrafe, provenienza e formazione; ma se all’ingresso avranno contato la curiosità e i buoni precedenti del TdL, i giudizi ampiamente positivi all’uscita, non meno inattesi dell’afflusso, sono tutti merito di tre fattori. Il primo fra essi è senza dubbio il testo e il poema da cui deriva. Jorge Luis Borges ha scritto che «quattro sono le storie. Una, la più antica, è quella di una forte città assediata e difesa da uomini coraggiosi.» È vero: l’Iliade è una meraviglia, perché è un impareggiabile affresco di orrore ed eroismo, di grandezza e atrocità, di valore e destino.

Il secondo è la regia: Nicola Rignanese non è solo l’attore di grande talento che conosciamo, ma anche uno che di teatro mostra di saperne un sacco. Movimenti scenici faticosissimi e precisi al millimetro, idee brillanti e soluzioni ingegnose per i cambi (ogni personaggio viene oreceduto da una sorta di giostra con suoni che ricordano sia un battito cardiaco che un treno in corsa) con luci purpuree ben dosate (e fatte funzionare da un Roberto Galano fuori ordinanza). Ho trovato splendida, e perfettamente congrua a un poema dominato sia dal fato che dalla fortuna (è un’estrazione a decidere che sarà Aiace Telamonio raccogliere la sfida lanciata da Ettore nel Libro VII per risolvere la guerra a singolar tenzone), di assegnare le parti con un sorteggio (sicché ci sono parti maschili interpretate da donne e viceversa) e di decidere in modo casuale sera per sera l’ordine dei monologhi. In grazia della universale notorietà della sua storia (esistono persino brani dell’Iliade tradotti in dialetto foggiano), questa trasformazione del poema in senso ipertestuale non nuove alla comprensione.

Il terzo e più importante fattore sono senza dubbio gli interpreti. Non sul piano delle performance individuali, di cui diremo fra poco, ma su quello collettivo, del loro agire come ideale coro della tragedia greca. Uno sforzo fisico improbo: quattordici persone sempre in scena, continuamente chiamate a parlare, urlare, accompagnare, saltare, fungere da base ritmica, pronunciare o ribadire motti e slogan. Un lavoro titanico e, per quanto posso dire io, svolto perfettamente. Non si è notato un solo attacco fuori tempo, una sola dissonanza, un solo movimento sbadato o sciatto. Sospettiamo che a questo esito trionfale non sia estranea la frequenza di molti degli attori, al Teatro-danza, l’ultima branca messa in piedi dai ragazzi di via Giardino. Prestazione maiuscola, ad ogni modo, nella quale non è emersa alcuna differenza fra attrici ed attori di lunga esperienza e perfettamente rodati ed altri con un lungo cammino ancora da parcorrere.

È giusto sottolineare, al proposito, l’ottima prova di Elèna Lombardo, fresca di ammissione al Corso Avanzato, che è stata decisamente brava nel dar voce a Demodoco (che è in realtà uno spin-off, perché è l’aedo che alla corte dei Feaci narra del Cavallo di Troia e induce l’esule Ulisse a rivelare la sua identità).

Proseguendo nell’esame dei singoli, e fatto presente che i livelli di difficoltà delle varie parti non sono omogenei (per tacere dell’inevitabile soggettività del critico), partirò da chi mi ha convinto maggiormente.

Eccellente Maggie Salice, alle prese con le imprese corsare di Ulisse e Diomede, così come Letizia Amoreo, da sempre una certezza, nei panni di Fenice (e la sorte le ha assegnato il non facile compito di rompere il ghiaccio). Talentuosa e in parte come sempre anche Graziana Cifarelli, nel mosso e drammatico monologo di Andromaca. Intensa e molto brava Nicole Piemontese che ha dovuto dar voce alla collera del fiume Scamandro contro l’empio uccisore Achille, reo di averne insanguinato le acque.

Fra gli uomini, applausi a scena aperta per l’ironico Agamennone di Stefano Dragoni (utile anche ad alleggerire la tensione drammatica di scene e spettatori) e per il Pandaro di Vincenzo Ficarelli, trasformato da arciere in chitarrista (in fondo sempre di corde si tratta). Non vorrei dire uno sproposito, ma mi è sembrato un tocco di classe che la canzone da lui accennata fosse la dylaniana Knockin’ on Heaven’s doors. Giudizio ottimo anche per il Patroclo di Raul Lannunziata.

Più che sufficiente, ma meno convincente del solito Elisabetta Campanella, che ha avuto qualche impaccio mnemonico nella parte della Nutrice (ed è un peccato, perché la scena fra Ettore, Andromaca e Astianatte è uno dei luoghi più soavi della letteratura di ogni tempo). Al bravo Cristiano Russo la sorte ha assegnato una difficilissima prova come quella di interpretare Criseide, per giunta con una scelta di regia assai impegnativa. Se poi ti capita di farlo alla fine dopo quattro ore di saltelli e girotondi… Se l’è cavata, comunque. Difficile anche, per il malcapitato Francesco Mucelli, dar corpo a Elena, che è forse il personaggio più sfaccettato e controverso di tutta l’epica greca.

In tutta sincerità penso possano fare molto meglio Stefano Graziani, un Achille troppo monocorde (d’altronde questo giovane attore si è ben distinto in molte altre circostanze), Francesco Giordano, che mi pare non abbia reso nel modo migliore la personalità sulfurea ed eversiva di Tersìte, e Luigi Papa, anche lui alle prese con una brutta gatta da pelare come la zuffa in cui muore Sarpedonte. Buon l’intensità fisica, ma mi pare sia urgente un lavoro sulla pulitura della voce dalle inflessioni dialettali.

Oltre alla totale opinabilità di questi giudizi, ribadisco che si tratta di dettagli nell’ambito di una prestazione collettiva che merita il massimo dei voti con lode e bacio accademico.  E chiunque riceva un’osservazione elogiativa o critica, fondata o meno, non scordi mai che la presa della rocca imprendibile del palcoscenico prende ben più dei dieci anni che furono necessari a espugnare Ilio. E purtroppo non lo si può fare con stratagemmi assortiti. Solo con passione, travaglio e sacrificio. Doti di cui mi pare in via Giardino a Foggia non ci sia penuria.

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