Non si può morire senza essere pianti. L’ovazione del Giordano per Michele De Virgilio, che mette in scena terra e caporalato con i suoi Cafoni

by Giorgia Ruggiero

In una realtà spesso squassata da omertà e ingiustizie, c’è un crepa che spacca i muri: è la cultura.

Lo sa bene Michele De Virgilio, che mette in scena Cafoni, il racconto musicale (tratto da una storia vera) magistralmente interpretato da Stefano Corsi e Simona Ianigro, e accompagnato dalle musiche di Antonio Cicoria, Giovanni Mastrangelo e Aurora Corcio.

Concetta Di Tonno ha ottantacinque anni. Ha fatto la bracciante per tutta la sua vita, ha lavorato le terre dall’alba al tramonto, dormendo spesso su sacchi di paglia, assorbendo la fatica incessante di tutte le anime sconfessate a lavoro con lei.

Il faro della sua vita è Peppino, suo marito. Quando Peppino muore – per le stesse fatiche della moglie – Concetta percorre quotidianamente la stessa strada: è quella del cimitero. Un giorno, lungo il ripetuto tragitto, in un angolo di terra nota una croce con su scritto Sconosciuto. È la tomba di un ragazzo che per gli altri non ha neppure un nome.

La cronaca fa il suo corso, le voci in paese girano. E com’è morto il ragazzo?

Durante le indagini si saprà che era un migrante polacco, un bracciante vittima di un violento Caporalato, di un’omertà assassina. L’hanno ucciso e poi gli sono passati sopra con un camion. Sfigurandolo, facendo sì che non fosse riconoscibile. È morto così, come i cani. Recita De Virgilio.

Concetta, che lo viene a sapere, è convinta di una cosa: non si può morire senza essere pianti. L’umiliazione subita da quel ragazzo di cui ora tutti parlano le ricorda quelle che lei stessa subì, anni addietro, e che lei comprende così tanto che – spinta da un forte senso di giustizia e di umanità  – paga a sue spese una lapide dignitosa per l’ignoto, a cui poter adesso lasciare qualche fiore. Gli dà una sepoltura da cristiano, da essere umano. Perché quando sei migrante non sei più un uomo, sei carne da macello.

Abbiamo chiesto a Michele De Virgilio come ci si senta a denunciare il Caporalato proprio nella terra del Caporalato, e lui, figlio dell’idea che il teatro Civile possa umanizzare una società omertosa e diffidente, ha ammesso il senso di responsabilità che si porta dietro, e – come ci dice – la difficoltà nel riuscire ad essere drammatico senza essere drammatico per raccontare con rispetto i caduti delle guerre nei campi.

Gli artisti, ci ha detto, sono lo specchio della società, ed è loro il compito di descriverla anche negli aspetti più vergognosi, perché un giorno possano cambiare, ripulirsi, sparire. Perché un giorno, forse, si risponderà finalmente un gran sì alla domanda: E voi, avete visto qualcosa?

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