Nord e Sud uniti dal caffè. E da Michele Placido

by Enrico Ciccarelli

Produzione ambiziosa, questa goldoniana Bottega del Caffè, che Michele Placido porta in scena per la regia di Paolo Valerio. Un classico sempreverde realizzato con grande scrupolo filologico grazie allo sforzo congiunto del triestino Teatro Rossetti, del fiorentino Teatro della Pergola e della pugliese Golden Arts, della bella e molto brava Giulia Vincenti in Placido.

Rientra, questo testo”, dice Michele Placido “in quella che fu definita la rivoluzione goldoniana: non più la commedia dell’arte, che serve a divertire, ha una funzione liberatoria, aiuta lo spettatore a non pensare; molti di noi vanno a teatro o a cinema per dimenticare i propri guai o preoccupazioni. Goldoni fa un’operazione straordinaria: questo è un teatro che diverte, ma aiuta anche a riflettere sulle fragilità e sui difetti dell’uomo”.

Nella Bottega, che fa parte delle Sedici commedie nuove, Carlo Goldoni illustra con settecentesca ironia le preclare virtù della Serenissima Repubblica di Venezia anche contrapponendola ai grigiori della Torino sabauda, da cui viene il sedicente nobile Leandro, cui presta voce e fisico il foggiano Armando Granato, e alle estroversioni controverse del nobile autentico, ma malevolo e pettegolo don Marzio, napoletano verace. Nessuna discriminazione territoriale, si badi: sono veneziani sia il proprietario della Bottega, l’onesto e dabbene Ridolfo, efficacissima prova d’attore di Francesco Migliaccio, sia l’untuoso biscazziere Pandolfo (Emanuele Fortunati), che finirà in galera. Come veneziano è il garzone Trappola, brillantemente interpretato da Luca Altavilla, ultimo scampolo di commedia dell’arte nel testo goldoniano. Della Serenissima anche l’ingenuo e gonzo Danilo, commerciante di tessuti vittima degli imbrogli di Pandolfo e Leandro, la deliziosa Alessia Sorbello, interprete di Vittoria, damina che impartisce senza soluzione di continuità lacrime svenimenti e robuste ombrellate coniugali, e la seducente Lisaura a cui Giulia Vincenti conferisce i suoi splendidi occhi neri e la sua verve. Due attrici particolarmente brave anche perché catapultate sul palco dal Coronavirus che ha colpito, per fortuna senza conseguenze alcuni dei titolari della compagnia, completata da Maria Grazia Flos. che interpreta la pellegrina Placida, anch’essa torinese.

Protagonista e mattatore è ovviamente Placido, che presta a don Marzio modi volta a volta arroganti o viscidi, borbottii di varia supponenza, presunzioni malevole erga omnes. Un hater ante litteram, nefasto e improvvido, ma anche di astuzia luciferina nel disvelare le ipocrisie che caratterizzano l’apparente serenissima quiete del campiello veneziano, che il regista ha concepito e la scenografa Marta Crisolini ha realizzato ispirandosi alla lontana al George Perec di “La vita, istruzioni per l’uso”. Bella la soluzione registica di fare a meno degli intervalli, e sostituire il sipario fra l’uno e l’altro atto con la comparsa dei personaggi celati dietro la bautta, la celeberrima maschera del Carnevale di Venezia. Uno spettacolo che dimostra come un classico non abbia mai finito di dire ciò che vuol dire, per citare Italo Calvino.

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