“Ognuno fa na parte na macchietta”: Pulcinella, Eduardo e il teatro della vita

by Michela Conoscitore

Immaginate una lezione su teatro e tradizioni popolari tenuta da due mostri sacri della cultura italiana: Eduardo De Filippo e Franco Zeffirelli. I due si ritrovarono per una conversazione sulla rete nazionale nel 1973, Zeffirelli nell’inedita veste di intervistatore e De Filippo in quella sua classica di affabulatore. Pulcinella ieri e oggi era il titolo della trasmissione, durante la quale i due registi hanno discorso di una delle maschere del teatro italiano più significative e simboliche. Ma non solo, fu anche un’occasione per immergersi nel macrocosmo attoriale di Eduardo e per ascoltare direttamente dalla sua voce il magnifico passato del teatro napoletano.

Eduardo De Filippo, discendente di una delle famiglie ‘nobili’ del teatro partenopeo, gli Scarpetta, divenne degno erede di quella tradizione che affondava le proprie radici non soltanto nella storia della città ma nell’animo dei napoletani. I suoi inizi calcano le tavole dei teatri più popolari del capoluogo campano, durante i quali De Filippo assaporò la vita degli attori di compagnia, consuetudini e dinamiche che si perdono nella notte dei tempi, ancor prima dell’avvento dei Cammarano e dei Petito al San Carlino. Ma andiamo con ordine.

Tutto è Pulcinella nel tuo teatro”, dice Zeffirelli ad Eduardo, “a Napoli c’è il teatro della vita, ogni personaggio ha il suo palcoscenico, e ogni avvenimento diventa drammatico e universale”: universale sarà un aggettivo che tornerà spesso nella loro conversazione per spiegare la maschera di Pulcinella e forse anche Napoli, città dai mille volti che racchiude tutti i tipi umani. Il tempio a Napoli delle rappresentazioni pulcinellesche, racconta De Filippo, era il teatro San Carlino nell’allora Piazza Castello, oggi Municipio: il teatro, chiamato così per distinguerlo dal Teatro Regio San Carlo, fu fondato nel 1740 ed era sede di commedie farsesche, che attiravano soprattutto il ceto popolare. Eppure si racconta che spesso, nelle recite pomeridiane, Ferdinando IV di Borbone abbia frequentato spesso la platea, camuffato con abiti da lazzarone.

Pulcinella, quindi, al San Carlino era di casa, e quanti se ne sono avvicendati sul suo palcoscenico, i più famosi hanno trasmesso la maschera, la cosiddetta mezza sola, di padre in figlio e sono quelli che hanno lasciato l’impronta più forte in uno dei simboli partenopei per eccellenza. De Filippo, citando Giorgio Arcoleo, afferma che Pulcinella rispetto ad altre maschere nasce dall’istinto popolare e non dall’ingegno e dall’intelligenza dell’uomo e, a differenza di quanto affermato da alcuni, la sua universalità non è affatto una limitazione.

De Filippo poi afferma che la nascita di Pulcinella la si fa risalire alle fabulae atellanae degli antichi romani e al personaggio di Maccus, che spesso ricopriva la parte del servitore sciocco; poi si arriva al Cinquecento quando la nascita effettiva di questa maschera la si individua in ben due eventualità: dal contadino Puccio D’Aniello di Acerra che abbandona la vita dei campi per fare il commediante, o dall’attore Silvio Fiorillo che ribattezzò la nuova maschera Pulciniello, piccolo pulcino, da qui forse l’anatomia della maschera col naso adunco. La narrazione di Eduardo prosegue con il ricordo delle famiglie che resero non soltanto protagonista ma mitico il personaggio di Pulcinella, ovvero i già citati Cammarano e Petito, soprattutto questi ultimi modificarono emblematicamente Pulcinella, basta ricordare il passaggio di consegne dal padre Salvatore al figlio Antonio, il più grande Pulcinella di tutti i tempi, nel racconto che ne fece il pubblico commosso che assistette alla scena quella sera: “Il vostro servitore devotissimo s’è fatto vecchio, ha bisogno, di riposo e voi non glielo vorrete negare dopo trenta anni  durante i quali vi ha servito. Da questa sera egli smette la maschera di Pulcinella, la consegna a suo figlio Antonio, che ha l’onore di presentare al rispettabile pubblico ed all’inclita guarnigione”, disse Petito padre ad Antonio davanti alla platea, consegnandogli la mezza sola e aggiungendo: “pe’ cient’anne!”. Forse questo augurio portò fortuna ad Antonio Petito perché, più tardi, nel 1876 morì proprio sulle tavole del palcoscenico del San Carlino. Così racconta l’avvenimento Salvatore Di Giacomo: “Quale scena! L’infelice fu trasportato, dal corridoio, sul palcoscenico e qui adagiato sopra un materasso. Fra tanto un attore usciva ad annunziare agli spettatori la triste novella. Un silenzio profondo seguì alle poche proteste di coloro che non credevano ancora all’avvenimento […]. Erano attorno al Petito i suoi compagni […]. E fu uno scoppio di singhiozzi, di urli, d’apostrofi, un pieno di commozione, che pareva il finale di un dramma […]. La notizia si sparse per Napoli in un baleno. Spariva il benemerito dell’allegrezza, il riso moriva”. Allievo prediletto di Antonio Petito era Eduardo Scarpetta, il padre di De Filippo: una narrazione concentrica quindi, quella del drammaturgo napoletano.

Petito, una volta diventato Pulcinella, riformò il personaggio e le rappresentazioni che lo videro protagonista, si riallacciò alla Commedia dell’Arte, trasformandolo in un servo arguto e saggio: per quanto analfabeta, l’attore e drammaturgo redasse ben cento lavori teatrali e, curiosamente, per esigenze personali, come racconta Eduardo, introdusse la calzamaglia rossa nel costume della maschera che indossava, inizialmente, soltanto un largo camicione bianco, il pan di zucchero in testa, anche se a Napoli i teatranti lo chiamavano o’ cuppolone, e la maschera. Ciò successe perché Petito si ammalò di broncopolmonite, e quindi non potendo patire il freddo per evitare ricadute aggiunse la calzamaglia rossa sotto il classico camicione pulcinellesco. Da allora, tutti i Pulcinella si sentirono in dovere di seguire l’esempio del maestro Petito, così il costume da allora non subì più alcuna modifica.

Franco Zeffirelli, però, fa notare a De Filippo che le maschere del teatro greco e romano coprivano totalmente il viso, mentre ‘a mezza sola di Pulcinella lasciava libera la parte inferiore del viso, ovvero la bocca. Com’era possibile recitare solo con la bocca? Il grande attore e regista, dopo aver raccontato che le migliori maschere venivano riprodotte dall’esatto calco del viso di Petito, ne indossa una lui stesso e dà prova mirabilmente a Zeffirelli della sua straordinaria capacità recitativa, dando vita, solo con le espressioni della bocca, ad un Pulcinella vitale e senza tempo.

De Filippo e Zeffirelli si perdono per le strade di Napoli, poi, incontrando il popolo, alla ricerca dei Pulcinella contemporanei che animano le vie strette e i bassi dell’antica Partenope: ne trovano a migliaia, a dimostrare che forse tutti i napoletani posseggono dentro di loro frammenti psicologici di questa maschera, scanzonata e tragica allo stesso tempo. La stessa mimica e gestualità del popolo napoletano attira Zeffirelli che afferma: “È nel carattere stesso dei napoletani l’esigenza di esprimersi, di espandersi, di recitare un grande canovaccio”, De Filippo approva questa osservazione aggiungendo: “La gestualità del popolo napoletano è nata durante il periodo delle dominazioni straniere. Questa sua grande capacità di comunicare lo ha salvato. In fin dei conti, quindi, Pulcinella è la caricatura dell’uomo.

Napule è ’nu paese curioso

è ’nu teatro antico, sempre apierto.

Ce nasce gente ca senza cuncierto

scenne pe’ strate e sape recità.

Nunn’è c’o ffanno apposta; ma pe’ lloro

‘o panurama è ‘na scenografia,

‘o popolo è ’na bella cumpagnia,

l’elettricista è Dio ch’e fa campà.

Ognuno fa na parte na macchietta

se sceglie o tip o n’omm a truccatura

L’intercalare, a camminatura

pe fa successo e pe se fa guarda.

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