Quando i migranti eravamo noi. Angelucci Marino porta in scena gli italiani d’Argentina con «Stèfano»

by Enrico Ciccarelli

Operazione ambiziosa e meritoria, quella che ha compiuto il Teatro Stabile d’Abruzzo in collaborazione con il Teatro del Sangro e il Teatro Abeliano di Bari: mettere in scena per la prima volta a livello professionale «Stèfano» di Armando Discepolo, capo d’opera del grotesque criollo e testo fra i più rappresentati dal Rio de la Plata alla Terra del Fuoco, al punto che lo si paragona per diffusione all’eduardiano «Natale in casa Cupiello».

Deus ex machina dell’operazione, in qualità di traduttore, regista e principale interprete una delle figure di maggior rilievo del teatro abruzzese e non solo, Stefano Angelucci Marino, che porta con lodevole frequenza i suoi lavori a Foggia. seguendo gli antichi sentieri della transumanza. Lo ha fatto anche con questo spettacolo, andato in scena al Teatro dei Limoni nel cartellone della stagione «Giallo coraggioso».

Discepolo, ammiratore di Luigi Pirandello, era egli stesso un Italiano d’Argentina, e suo padre, andato sotto la Croce del Sud in cerca di fortuna negli ultimi decenni dell’Ottocento, era un musicista di Napoli la cui biografia ha probabilmente influenzato la vicenda narrata nella sua commedia. Fra Otto e Novecento, l’immensa terra delle pampas incarnò non solo un sogno di libertà dalla fame, ma anche di musica e bellezza, con il tango che usciva dalle taverne malfamate dei gauchos e delle prostitute per diventare sensuale colonna sonora del Ventesimo Secolo. Un’impresa tentata con successo anche dal grande Tito Schipa, e che affascinò migliaia di musicisti.

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«Stèfano» è del 1928, quando molti sogni sono svaniti e il duro sasso della realtà ha spento la musica dorata dell’illusione. Tre anni prima, a Napoli, già si cantava quante lacrime ci costasse «st’Ammerica». Il naufragio dei sogni e dell’esistenza di Stèfano è per Discepolo l’occasione per trarre questa epopea dal limbo del folklore e della sceneggiata e farne (come farà Arthur Miller con il celeberrimo «Uno sguardo dal ponte») lievito di umanità e di compassione. Si tratta di uno spettacolo che dal punto di vista del plot può lasciare perplessi, perché nell’oretta abbondante dell’atto unico succede ben poco; ma vi è molto di godibile nell’impasto linguistico scelto dal traduttore, uno slang meridionale spruzzato di vocaboli spagnoli.

Di ottimo livello le prestazioni attoriali: bravissimo, in una parte assai impegnativa anche dal punto di vista fisico, Angelucci Marino; eccellenti Tina Tempesta e Vito Signorile, nel ruolo dei genitori di Stèfano che lo hanno seguito nell’avventura australe; si disimpegna con poche incertezze l’attor giovane Paolo Del Peschio, alle prese con l’interpretazione dei tre figli del protagonista e di un collega orchestrale suo ex-allievo. Spiace dover dire che la solitamente bravissima Rossella Gesini, nel ruolo della moglie argentina di Stèfano, dopo un inizio strepitoso, è sembrata un po’ perdere il filo della parte. Ma magari è un’impressione sbagliata o legata a quella singola replica.

L’allestimento, spartano, consiste in una sorta di panche da chiesa con alle spalle un mobile da cui fuoriescono spartiti, come schegge di un sogno infranto. Le luci che tagliano il palco con l’accetta conferiscono un tono leggermente angoscioso alle maschere moderne che sono da tempo la cifra stilistica del Teatro del Sangro. La cosa che ci è piaciuta di più sono le canottiere bisunte dei costumi di scena. Anche gli italiani dei barrios periferici della sconfinata Buenos Aires, contribuiranno, di lì a qualche anno, a ingrossare le falangi dei descamisados che portarono al potere il justicialismo e Juan Domingo Peròn.

Le foto sono di Iolanda Albrizio

Nel video l’intervista a Stefano Angelucci Marino

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