“Resurrexit Cassandra”. Sonia Bergamasco: «Cassandra è una donna ferita che chiede ascolto: la sua è una chiamata alla comunità»

by Felice Sblendorio

La grazia, nel suono della voce di Sonia Bergamasco, è intatta, viva, presente. Questa attrice dal talento magico, che spazia dal teatro al cinema, dalla televisione alla poesia con un suo codice leggero e lieve, parla dei suoi spettacoli, dei suoi versi e dell’importanza del gesto teatrale: l’unico, secondo lei, ad avere una forza fragile ma indispensabile per affrontare questi tempi e orizzonti tristi. Dopo il successo invernale di “Chi ha paura di Virginia Woolf?” per la regia di Antonio Latella, Bergamasco ritorna in scena con “Resurrexit Cassandra”, una ricomposizione del corpo teatrale di Cassandra, la mitologica sacerdotessa della preveggenza, scritto da Ruggiero Cappuccio per la regia di Jan Fabre. Lo spettacolo, in programma domenica 28 agosto al Teatro Garibaldi di Lucera, è proposto da PrimaVera al Garibaldi, la rassegna teatrale curata da Fabrizio Gifuni e Natalia Di Iorio, per il cartellone Estate|Muse|Stelle. bonculture ha intervistato Sonia Bergamasco.

Bergamasco, chi è la sua Cassandra? Una folle, una millantatrice, una visionaria?

Nella riscrittura di Ruggero Cappuccio, che attinge da fonti storiche, Cassandra è, prima di tutto, una donna: una donna ferita, offesa, desiderosa però di condividere ancora una speranza. Per questo non è stanca di parlare. La sacerdotessa Cassandra, in questa riscrittura, è come se ritornasse in vita e chiedesse ancora una volta, oggi, il nostro ascolto. La sua è una chiamata alla comunità.

Le profezie di Cassandra sembrano essere molto vicine al tempo inquieto in cui viviamo.

Questo spettacolo, diviso in cinque stazioni, ha molta aderenza con quello che stiamo vivendo oggi: la guerra, la pandemia, lo spreco di vite, energie e bellezze. E lo spreco della natura, del circostante, del nostro pianeta. È un testo che sento molto vicino a noi: “Resurrexit Cassandra”, in tal senso, credo sia un testo necessario.

Il testo si concentra molto sui disastri ambientali che, nel corso degli anni, abbiamo prodotto. Cassandra afferma: «La natura ritorna sempre a reclamare ciò che è suo. Non danneggiatela se non volete che vi uccida». La natura è innocente?

La natura è innocente, segue il suo corso ed è molto più potente di noi. Noi siamo ospiti, ma dimentichiamo di essere momentanei in un pianeta che abbiamo già devastato. La nostra natura di ospiti è precaria. Se non prendiamo atto di questa nostra condizione, spariremo. Vivranno gli alberi, molto più di noi.

Cassandra vorrebbe una fuga dal suo corpo e la libertà della morte: per lei è una condanna rinascere, rincarnarsi ancora?

Vorrebbe essere liberata da questo maledetto ruolo per cui è ricordata nella storia e nella leggenda come quella che maledice, impreca, minaccia, condanna. Cassandra chiede di essere ascoltata: solamente così la sua voce non sarà più necessaria.

La Sacerdotessa ci invita a ricercare una nostra dimensione spirituale. Perché è sempre così difficile guardarsi dentro, comprendersi?

Nel mio piccolo ho sempre cercato di guardarmi dentro. Spesso l’ho fatto bene, spesso male, ma è quello che ho fatto, sto cercando e non finirò mai di fare. Chi non lo fa o chi lo fa superficialmente, forse è più attratto da quello che ci accade attorno o da un’idea diversa del tempo. Un tempo in cui devono succedere, bisogna fare e accumulare cose, agire. Io credo che in un’esistenza così fragile come la nostra serva un equilibrio fra due sguardi, quello interno e quello esterno, per riuscire a vivere bene.

Il destino di Cassandra sembra essere molto simile all’atto teatrale: profetico, spesso inascoltato, a volte fallimentare, capace di morire e rinascere ogni sera, nuovamente.

Il gesto artistico ha una potenza e una forza fragile. Con un nulla può sparire, non esistere più, eppure ha una potenza in cui io credo molto. Per tante persone questa forza è rilevante, soprattutto in momenti così profondi di crisi umana, esistenziale, politica ed economica. Il gesto artistico – non la bellezza, una parola che può essere tradita, fraintesa, vista in mille modi – è la mia àncora di salvezza. La potenza del teatro, del fare teatro e del ritrovarsi su testi o su momenti di vita è un bisogno che molti sentono come prioritario. Questo spettacolo ha debuttato l’anno scorso a Pompei. Sono contenta di portarlo ora a Lucera, un luogo del mio cuore. L’anfiteatro è magico: mi ricorda quell’apertura alle stelle che solo i teatri antichi possono offrire. La voce di Cassandra ha bisogno di risuonare in uno spazio aperto, in un luogo in cui è possibile guardarsi, incrociarsi, respirare insieme.

Questo spettacolo non è un monologo, è quasi un melologo. Il rapporto fra le parole e la musica è intenso.

È un dialogo fondamentale quello con la musica. Stef Kamil Carlens, il compositore delle musiche, ha scritto queste colonne sonore in tempo reale durante le prove. La musica, che è stata la mia formazione, è sempre presente nei miei lavori. Considero questo spettacolo non un monologo, ma un dialogo, una relazione con un’altra voce, la musica. In scena, immersa in un deserto bianco, sono accompagnata da molti serpenti lignei, dalla musica e dalle canzoni. Ci sono canzoni che segnano i vari passaggi dello spettacolo, come momenti unici di un rito antico.

In scena è presente la musica, il corpo, ma soprattutto la voce. Che cos’è, per un attore, il suono della sua voce?

È tutto. Tra gli artisti che mi hanno aiutata a entrare nel cuore di questo discorso, Carmelo Bene sicuramente è stato centrale. Il percorso con lui mi ha donato l’accento giusto per continuare un lavoro molto personale. È sempre necessario portare qualcosa di proprio nelle cose che facciamo. Bisogna accettare la propria dimensione: io ho un corpo, delle possibilità e dei limiti che sono solo i miei. Possono diventare delle qualità se li riconosco, se riesco ad affrontarli, a sottolinearli, ad attraversarli.

La sua pratica teatrale è un’immersione totale nella parola, nel corpo vocale. Perché è imprescindibile questo scavo?

È la mia lingua originale. Dopo il diploma in pianoforte, voltando pagina e andando a fare teatro, mi sono resa conto che mi portavo dietro tutto un alfabeto profondo che non mi avrebbe – e non mi ha – mai abbandonato. Ho letto e affrontato fisicamente e interpretativamente tutto attraverso la voce, il mio strumento musicale. In scena io sono in ascolto. L’ascolto, come chiede Cassandra, è un punto essenziale della nostra vita: bisogna sempre mettersi in ascolto. Nella musica il rilievo è sul suono, ma il silenzio che viene prima e dopo è sempre musica: è ancora musica.

La musica, il corpo e la voce sono presenti anche nella sua raccolta di poesie, “Il Quaderno”, edito da La Nave di Teseo. La scrittura quando arriva nella sua vita?

È arrivata abbastanza presto, negli anni del liceo. Un incontro importante è stato quello con Quirino Principe, un musicologo e, per me, una figura mitologica. Lui è stato il primo a cui ho fatto leggere le mie poesie. La scrittura si riallaccia in modo molto naturale al corpo della parola teatrale. Io concepisco la scrittura come una materia sonora, come un corpo che risuona e che ha una misura musicale e un’estensione ben precisa nei miei versi. La scrittura è un proseguimento molto intimo del mio mestiere.

La sua poesia non spiega, ma descrive, mostra, rischiara.

Sì, è più una dimensione di accensioni, di tappe di percorso, di squarci, di laghi che si aprono. Credo che avere una visione, nella scrittura poetica, sia centrale.

Lei spesso porta in scena la poesia. La poetessa Mariangela Gualtieri ha scritto che bisogna liberare nell’aria i versi e trovare una forma sonora. Amelia Rosselli chiamava questa magia l’incanto fonico.

Amelia Rosselli è la mia fonte, una maga che ho inseguito sempre. Lei leggeva con una voce indimenticabile, storta, densa, musicale. In occasione della mia prima lettura del Quaderno, fatta in forma di concerto con il compositore Fabrizio De Rossi Re, ho percepito che il pubblico, nel rito della lettura poetica, entra in empatia e accoglie la parola in maniera più immediata, densa, lieve. L’incanto fonico è un percorso, una sorta di marea che ti accoglie e che, attraverso il suono delle parole, ti fa nuotare dentro.

Scrive che l’adolescenza si scioglie nell’oro. Perché è così presente la sua infanzia in questi versi?

La mia infanzia è finita. Mi inoltro in una fase molto matura della mia vita, ma proprio per questo sento che quel tempo è sempre con me. Credo che per un attore questa vicinanza sia fondamentale. L’infanzia dei giochi e del tutto è possibile non muore mai per noi. Io, per quanto ho potuto, ho sempre cercato di tenermi legata a quella corrente di energia primordiale che è l’infanzia. Quel tempo della vita, con cui ho un rapporto ancora molto forte, crudo e difficile, ogni essere umano dovrebbe preservarlo intatto per sé e per gli altri.

La memoria trattiene anche il dolore, le ferite?

La ferita è l’inizio di tutto, per tutti. Poi ci sono persone che collezionano ferite e altre che hanno più fortuna e scivolano lievemente nella loro vita. L’importante è come si traducono quelle ferite. Se ci guardiamo da lontano tutto fa ridere, tutto è ridicolo. Tutto è fragile, nullo. Eppure, c’è, è importante, ci tocca. Anche le cose più piccole.

Guardarsi da lontano e trovare la prospettiva giusta è una sfida difficile.

È una sfida difficile, ma l’infanzia e l’ironia dovrebbero allenare il pensiero attivo di uomini e donne nella vita, nella politica e nel lavoro. Per cercare di coglierci nel presente e non darci troppa importanza.

Ci riescono tutti?

No, non tutti. I ragazzi, molto spesso, sono privi di ironia su sé stessi perché hanno bisogno di fondare il proprio mondo: di respirarlo, di conoscerlo, di crederci fino in fondo. È molto difficile fare ironia su qualcosa che sta sorgendo. Il tempo, però, farà il suo corso: e renderà tutto più fragile, più relativo, più umano.

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