Rinascere umani. Lo splendido «I don’t care» di Pierluigi Bevilacqua resta attualissimo con una messa in scena d’avanguardia e una superba Asia Correra

by Enrico Ciccarelli

Vedere «I don’t care» di Pierluigi Bevilacqua, andato in scena al Piccolo Teatro Impertinente nello scorso fine settimana, rende superfluo qualsiasi interrogativo sulla vasta messe di premi che lo spettacolo, nato nel 2016, ha mietuto in Italia e all’estero. L’idea dell’attore e regista foggiano, che giustamente viene iscritta nella categoria della performing art, è infatti efficace, coinvolgente e innovativa, con gli schermi degli smartphone, sapientemente sincronizzati, che tengono luogo della scenografia, le loro torce che fungono da spettrale riflettore per i visi dei cinque attori in abiti ninja, il telo trasparente da proiezione che fa da mobile scenario dipinto e che diventa, nella più geniale delle soluzioni registiche adottate, ll sacco placentario della rinascita, e altro che sarà sicuramente sfuggito all’occhio del recensore.

L’esordio è proprio quello della proiezione sul telo dell’incubico cartoon «Sei anche tu smarrito nel mondo come me?» creato nel 2014 per l’omonima canzone di  Moby & The Void Pacific Choir (ma nello spettacolo viene presentato con un audio diverso). Poi arrivano in scena, in aderenti tute total black che lasciano scoperto solo l’ovale del viso, i cinque interpreti, che sono, in rigoroso ordine alfabetico, Francesca Camplese, Asia Correra, Mario Mignogna, Veronica Ricucci e Arturo Severo. Caotici, ossessivi, respingenti, frastornanti, i movimenti e le rade frasi smozzicate degli attori rendono bene l’idea della dipendenza (le rappresentazioni hanno avuto anche un seguito di confronto con docenti e studenti sul tema dell’uso dei social network). Bevilacqua si muove sullo stretto crinale che separa la critica delle degenerazioni della modernità dalla critica della modernità tout court, e lo fa con maestria.

Così echeggia invano nel ciangottio dei messaggi, delle frasi fatte, delle iperboli insignificanti, l’eterno monologo dell’Amleto, mentre viene reso con impressionante crudezza l’utilizzo della tecnologia scintillante dei nuovi device al servizio del pregiudizio e del buio della specie, in forma di aggressione e abuso verso due ragazze colpevoli di amore non omologato. Lascia inizialmente perplessi che il dialogo fra le due lesbiche che precede l’aggressione sia ripetuto una seconda volta via telefonino dopo averlo ascoltato in presa diretta. Ma poi si comprende (rectius, spettatrici attente lo spiegano all’ottuso recensore) che è l’ipostasi di un mondo in cui il rappresentato ha superato il reale, nel quale abbiamo incontrato qualcuno o siamo stati in un luogo solo se abbiamo scattato il selfie d’ordinanza, in cui la proiezione social fa premio sull’evento in sé.

Proprio quando sembra che l’invettiva passatista stia prendendo il sopravvento, che ci si trovi di fronte all’ennesimo esercizio di ipocrisia di giovani generazioni attentissime al fashion e al design che fanno mostra di sdilinquirsi per un indiano con gli occhialini vestito solo con un lenzuolo, ecco l’inatteso: il telo di plastica si stacca e avvolge, due attrici abbandonano le funebri gramaglie per vestirsi di bianco candore e una di esse, la Correra, pronuncia un monologo di toccante bellezza. È come se Ariele, lo spirito aereo e benigno della Tempesta shakespeariana, irrompesse nella Galleria degli Orrori di un cupo lunapark. Bello, commovente, trascinante, mentre gli onnipresenti schermi ripetono il mantra «Stay Human», restiamo umani, che in realtà andrebbe più correttamente declinato come «rinascere umani»; perché la tecnologia, quel lungo cammino che porta dall’utensile allo smartphone, non è ciò che ha distrutto la gentilezza; è ciò che l’ha creata, e proprio per questo, a parere di chi scrive, va protetta dalle sue intuibili e a volte evidenti degenerazioni. Per dirla in modo un po’ sempliciotto, dobbiamo apprendere a usarla senza farcene usare.

Tornando allo spettacolo, è difficile muovere rilievi di qualche importanza: l’atto creativo è magnifico, le soluzioni registiche impeccabili, la qualità degli interpreti encomiabile. A voler cercare il pelo nell’uovo, qualche movimento scenico potrebbe essere meglio sincronizzato, ma si tratta davvero di pignolerie. L’ottimo giudizio medio, però, non cancella le eccellenze. La performance di Asia Correra può essere definita solo come sbalorditiva. Oltre a possedere un evidente talento naturale, questa poco più che ventenne attrice foggiana padroneggia egregiamente ogni tipo di registro drammaturgico. Gran merito suo e del suo mentore Bevilacqua. Per quanto possiamo capirne noi, l’espressione «è nata una stella» (benché ormai Asia sia quasi una veterana) non è azzardata. Ad maiora.

Le foto sono di Samuele Romano, prese dalla pagina facebook della Piccola Compagnia Impertinente

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