Se Itaca diventa Ischia. La Compagnia dei Mutamenti e i loro Ulisse e Penelope in versione napoletana

by Enrico Ciccarelli

Da Omero a Dante, da Kavafis Joyce, poche figure come il Laerzìade Ulisse, re di Itaca, scorridore dei sette mari, eroe suo malgrado sotto le mura d’Ilio, hanno avuto tante versioni e interpretazioni. Il fatto stesso che il primo verso dell’Odissea che lo definisce sia tradotto «uomo ricco d’astuzie» da Rosa Calzecchi Onesti e «uom dal multiforme ingegno» da Ippolito Pindemonte ci dice quanto sia mutevole e contraddittoria questa figura mitica, simbolo a un tempo dell’erraticità e del ritorno, della nostalgia e dell’avventura.

Non sfigura, in questo florilegio, lo spettacolo «Di un Ulisse e di una Penelope», che la Compagnia dei Mutamenti ha portato in scena a Foggia, nell’accogliente spazio del Teatro dei Limoni di via Giardino per il cartellone di «Giallo coraggioso».

Il testo è ricavato da una parte della «Trilogia delle donne dell’acqua – Medea, Penelope, Didone» della poliedrica e prolifica scrittrice casertana Marilena Lucente.  Casertani sono anche Roberto Solofria e Ilaria Delli Paoli, attori della compagnia che sono anche gestori del «Teatro Civico14» una sala off in corso di rinascita dopo la gelata della pandemia.

Lo spettacolo è compatto, dalla scenografia essenziale, molto ben interpretato vocalmente e gestualmente, accompagnato con estrema efficacia dalle musiche e dagli effetti sonori di Paky Di Maio. La sua peculiartà è la traduzione in un napoletano anti-oleografico ed aspro, ideale spartito per la notevole versatilità della voce di Solofria, cui fa da controcanto una Delli Paoli secca ed austera, perfetta nel dare voce a chi ha da raccontare non un viaggio tumultuoso, ma una strenua resistenza nella solitudine.

Ci ha persuaso la trasformazione del mare nella ristretta pozzanghera che bagna il palco, con il rumore delle onde trasformato nello sciaguattìo degli attori e il richiamo della vastità relegato alla conchiglia che Ulisse avvicina all’orecchio. La dimensione del viaggio è tutta interiore, e invano Penelope –ci è parso- prova a spiegarla al suo uomo, superficiale come tutti i maschi.

Solofria è molto abile nel giocare con le suggestioni del dialetto, al punto che quando Ulisse e Telemaco tramano la loro vendetta contro i Proci predoni e arroganti sembrano Pietro e Gennaro Savastano che rispetto al clan rivale proclamano «ce ripigghiamm tutte chell’ che è ‘o nuostro».

La trasformazione di Itaca in Ischia conferma la totale declinabilità del mito in ogni luogo e tempo, e anche la sua sostanziale inesauribilità. Solofria, che pure occasionalmente sembra un po’ troppo innamorato della sua indiscutibile bravura, è perfetto nel far coesistere l’Ulisse inaffidabile e vagheggino con quello disperato e disperso, il sanguinario sbruffone e l’ingenuo che vorrebbe ripartire con la sua sposa al fianco.

Non meno in parte Delli Paoli, chiamata a incarnare la terrena concretezza delle donne, quelle che gli uomini (i maschi) costringono incessantemente, per le proprie ubbie insensate, a fare e disfare la tela della loro vita. Bello spettacolo, bella proposta. Com’è d’uso a Giallo coraggioso.

Nel video l’intervista a Roberto Solofria e Ilaria Delli Paoli.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.