“Se le guerre possono essere avviate con le bugie, si possono fermare con la verità”: Julian Assange raccontato da Alessandro Di Battista

by Claudio Botta

“Se Julian Assange dovesse morire in carcere, eventualità purtroppo non da escludere, le responsabilità non saranno soltanto dei Potenti di cui ha svelato i segreti al mondo intero, ma anche e soprattutto dei suoi colleghi giornalisti che non hanno avuto il suo stesso coraggio, non hanno voluto rischiare lo stipendio, la reputazione e la carriera. Giornalisti che, quando sono stati a Londra per i funerali della regina Elisabetta II nell’abbazia di Westminster, non hanno ritenuto necessario fare un salto nel carcere di massima sicurezza a pochi km di distanza dove è rinchiuso dall’11 aprile 2019, la Prigione Belmarsh (la Guantanamo inglese). Si è voluto colpirne uno per educarne cento: ma sono sicuro che se quell’uno si moltiplicasse per centinaia, per migliaia, Julian Assange potrebbe tornare ad essere un uomo libero”.

Bisogna spoilerare il potente e toccante finale per raccontare l’ultimo lavoro di Alessandro Di Battista, forse quello che permette di conoscerlo davvero e che fa capire cosa può spingere un giovane politico all’apice della notorietà a uscire volontariamente dal Palazzo per raccontare da reporter il mondo degli ultimi, e poi a rinunciare a poltrone ministeriali e candidature su candidature per restare un uomo libero, libero da compromessi al ribasso e di procedere in direzione ostinata e contraria rispetto a narrazioni imperanti e di comodo, pagando in prima persona le conseguenze delle sue scelte. Da solo sul palco con un leggio in fondo, uno schermo alle sue spalle: non gli serve altro per parlare di Julian Assenge, giornalista e attivista australiano mago dell’informatica cofondatore dell’organizzazione WikiLeaks, la sua parabola da candidato più volte al Nobel per la Pace e insignito di altri prestigiosi riconoscimenti internazionali all’essere etichettato come uno stupratore e considerato un pericolo da eliminare in ogni modo, per avere scoperto il vaso di Pandora delle guerre in Afghanistan e Iraq e Libia durate decenni e costate un’enormità (anche e soprattutto in termini di vite umane sacrificate), ben diverse dalle missioni per esportare la democrazia e liberare popoli oppressi che le hanno giustificate; dello spionaggio dei leader europei da parte della National Security Agency; delle schede segrete dei detenuti di Guantanamo, per citare solo alcune delle azioni compiute.

Se le guerre possono essere avviate con le bugie, possono essere fermate dalla verità”: ecco il cuore e l’anima della mission WikiLeaks e del Di Battista giornalista e non più frontman carismatico e trascinante del Movimento 5 Stelle, dovrebbe essere il cuore pulsante del giornalismo d’inchiesta. Nei 700mila files ‘fired’ (secretati) dell’intelligence americana e passati a WikiLeaks nel 2010 da un whistleblower (letteralmente, colui che denuncia un fatto grave di cui è a conoscenza rompendo il tabù della riservatezza), sono comprese anche le terribili immagini -girate il 12 luglio 2007- di un gruppo di civili per le strade di Bagdad diventati bersagli per soldati americani in azione su elicotteri Apache, e il video di 17  minuti intitolato Collateral murder (Omicidi collaterali) è agghiacciante, le macchine fotografiche scambiate per mitragliatrici, la soddisfazione dei soldati, i soccorritori colpiti a loro volta, i bambini morti.

Tutto troppo scomodo per poter essere conosciuto dall’opinione pubblica mondiale, e quindi la prima risposta dell’establishment produttori di armi-alta finanza-politica è colpire le fonti, considerare appunto i whistleblowers traditori della patria, equiparare il giornalismo libero allo spionaggio: Julian Assange ma anche Chelsea Manning (poi graziata da Obama, altrimenti sarebbe stata tenuta in carcere per 35 anni) ed Edward Snowden diventano tre simboli di un confine che si è oltrepassato. Ma le rivelazioni non si fermano. Sulla Task force 373, il commando militare americano top secret che opera in Afghanistan, una black unit protagonista di numerose azioni nelle quali vengono uccise persone innocenti, civili, donne, bambini, i rapporti ufficiali sistematicamente insabbiati e alterati. Sulle torture riservate ai prigionieri. Il cablegate, altri 250mila documenti segreti che le ambasciate americane avevano inviato al governo centrale contenenti informazioni sensibili sulle operazioni in giro per il mondo e sui rapporti con stati esteri, è imbarazzante per un presidente (Barak Obama) che l’anno precedente aveva avuto il Premio Nobel per la Pace. E inizia la contronarrazione su Assange, le accuse di violenza sessuale e stupro (rivelatesi poi infondate) che arrivano dalla Svezia e che lo costringeranno a rifugiarsi per sette anni nella piccola ambasciata dell’Ecuador a Londra, il 19 giugno del 2012, per sottrarsi all’arresto e all’estradizione in Svezia prima e negli Usa poi. Tutte le persone con cui entra in contatto spiate dai servizi di intelligence, compresa la giornalista italiana Stefania Maurizi (autrice del libro Secret Power: WikiLeaks and Its Enemies, prefazione del regista Ken Loach, presentato tra l’altro anche nell’ultima edizione de ‘Il libro possibile’ a Vieste, nel luglio scorso). La rivelazione dei contenuti delle oltre 30mila mail spedite da Hillary Clinton tra il 2010 e il 2014, quando era Segretario di Stato, fanno barcollare questa volta il castello di racconti sull’origine, sulle cause e sui reali obiettivi della defenestrazione di Gheddafi e della guerra in Libia.

Il cambio di governo in Ecuador ha determinato la fine di una protezione sui generis, lui spiato notte e giorno dalla UC Global spagnola che avrebbe dovuto garantire la sicurezza dell’ambasciata, e privato per mesi anche della possibilità di farsi la barba e tagliarsi i capelli per apparire trasandato e fuori di testa al momento dell’arresto. Una possibile estradizione può costare ad Assange un processo negli Stati Uniti e una condanna fino a 175 anni di carcere per spionaggio. Per avere violato sistematicamente il segreto di Stato: quando questo viene però usato non per proteggere la sicurezza e l’incolumità dei cittadini, ma per nascondere crimini e garantire l’incolumità ai potenti. Un epilogo e una condanna che il giornalismo (libero e non asservito, ovviamente) e la democrazia non possono permettersi, perché l’informazione orientata alla ricerca della verità non può e non deve diventare un pericolo per la democrazia.

Grazie quindi ad Alessandro Di Battista per il sasso gettato nello stagno dell’indifferenza e del silenzio e della disinformazione e della mistificazione su una storia che non interessa soltanto Julian Assange e i suoi familiari, ma ognuno di noi. Nonostante le prevedibili accuse di diventare poi automaticamente filo-nemici, nella divisione tra i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, che vale per tutte le guerre, Ucraina compresa. Grazie all’associazione Oltre Babele che da 14 anni organizza la Fiera del Libro a Cerignola, un appuntamento sempre più radicato nel tessuto sociale, civile e culturale di un territorio desideroso di proiettarsi oltre limiti e freni che da decenni ne ostacolano la crescita. Grazie all’amministrazione comunale che ha concesso all’ultimo momento -causa avversità atmosferiche- l’utilizzo del Teatro Mercadante e una cornice più suggestiva per il racconto e per la proiezione dell’immagine finale sul grande schermo, realizzata con l’Intelligenza Artificiale: Julian Assange libero e sorridente, insieme ad una folla entusiasta. E il campionamento di archi di Bitter Sweet Simphony dei Verve (ripreso da una versione orchestrale di The Last Time dei Rolling Stones) è davvero una colonna sonora bellissima, aperta alla speranza e alla forza della condivisione.

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