“Senza relazioni reali il teatro perde la sua necessità”. Il sogno a Mezzanotte di Bottega degli Apocrifi

by Felice Sblendorio

Il mondo del teatro e della cultura non potevano più aspettare. Questa notte, infatti, quando le lancette supereranno di un minuto la mezzanotte, il Teatro Comunale “Lucio Dalla di Manfredonia sarà il primo teatro pugliese – e uno dei primi in Italia con Ascanio Celestini a Pesaro – a ripartire simbolicamente con le sue attività. Dopo ben 99 giorni di chiusura, lo spazio di comunità gestito dalla Compagnia Bottega degli Apocrifi tenta di ricongiungere i lavoratori dello spettacolo e il pubblico in un percorso relazionale interrotto dalla pandemia e dal distanziamento sociale. In collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese, questa sera cinquanta spettatori – oltre una diretta streaming sulle pagine social del teatro e del Tpp – potranno partecipare a questo rito di rinascita collettiva, un momento di unione e luce, come ha sottolineato Cosimo Severo, il regista e direttore artistico dell’evento. Dopo alcuni mesi di silenzio, un teatro della periferia del Sud, che negli anni ha sviluppato pratiche importanti unendo alla ricerca e alla sperimentazione teatrale l’urgenza civica e politica, ritorna a dialogare con la sua comunità, con i corpi in scena e con una precisa missione: cercare le parole più adatte per alimentare – prima che una somma di risposte – le giuste domande per attraversare la tempesta.

bonculture, a poche ore da questa riapertura “storica”, ha intervistato Stefania Marrone, drammaturga e direttrice organizzativa della compagnia teatrale.

Un minuto dopo la mezzanotte di questa sera il Teatro “Lucio Dalla” ripartirà: una scelta simbolica o un gesto politico?

Un gesto politico-simbolico, direi. Politico perchè manifesta l’urgenza che hanno la comunità e il teatro di rincontrarsi, e quindi l’urgenza che vengano poste politicamente le basi perchè questo accada. Cosa succederà a ottobre quando dovrebbero ricominciare le stagioni teatrali? Quante imprese e compagnie teatrali saranno rimaste in piedi dopo questa pandemia? Qualcuno si occuperò di contarle? Ci sono queste e tante altre domande che abitano la nostra riapertura. Riapertura fissata allo scoccare del centesimo giorno, simbolicamente appunto, perchè – come nella solida tradizione archetipica delle fiabe – all’alba del centesimo anno (ci sono parsi anni questi giorni di fermo) s’innesca la scintilla che genera il cambiamento.

Dopo ben novantanove giorni di chiusura ritornerete ad “abitare” uno spazio pubblico che, tempo, si è fatto comunità. In questi mesi vi siete chiesti per quanto tempo un teatro che non incontra il suo pubblico può considerarsi vivo. Vi siete dati una risposta?

Per nostra esperienza diretta, direi che abbiamo superato il limite: meno di 99 giorni, quindi. Nelle “Mille e una notte”, Shahrazad fin quando racconta è salvo, nel “Decameron” i dieci giovani che si rinchiudono per sfuggire alla peste saranno vivi fin quando ascolteranno le storie che vengono raccontate. In teatro l’attore e lo spettatore sono l’uno per l’altro la garanzia di essere vivi: se vi fosse solo uno dei due non si farebbe il teatro. Sono lì, insieme, sopravvissuti al “c’era una volta” di cui si racconta. Ancora insieme lì, sopravvissuti alle macerie e pronti a ricostruire su quelle. C’è momento in cui il teatro è stato più urgente di adesso?

Il vostro modo di fare teatro ha trovato una propria cifra nella costruzione di una moltitudine di corpi, relazioni, incontri, vicinanze. Un teatro che non coltiva più le sue relazioni reali quale destino abbraccia?

Il teatro si fonda sulle relazioni reali, sui conflitti che esse generano e sulle loro possibili (e impossibili) elaborazioni. Senza relazioni reali il teatro perde il suo senso, il suo valore, la sua necessità, la sua ragion d’essere. Noi Apocrifi siamo a Manfredonia da 16 anni e da 12 curiamo la gestione della casa pubblica conosciuta come “Teatro Comunale Lucio Dalla”. In questi anni abbiamo lavorato ininterrottamente per abbattere le distanze: tra i corpi in scena, tra attori e pubblico, tra palco e platea, tra teatro e città, fino a creare un format che si chiama “produzione di comunità”, fondato sul coinvolgimento diretto in scena della nostra comunità e delle comunità di ogni città che ospitano i nostri spettacoli. Il nostro ultimo lavoro, “Uccelli”, è nato mescolando ad attori e musicisti professionisti ben 100 bambini e ragazzi di Manfredonia, poi di Saragozza, Giovinazzo, Bisceglie e tanti altri aveva ancora in programma di mescolarne in Puglia e fuori regione. Mescolarsi è una parola che si può dire oggi? Quanto ci vorrà perchè la parola contaminazione tornerà a essere generativa? E se mi avvicinassi per abbracciarti sarebbe un gesto d’amore o una minaccia? Non ho le risposte, ma penso che queste domande siano un buon punto di partenza per immaginare la vita – e quindi il teatro – che sarà. Credo che un teatro privo di relazioni reali possa restare vivo solo nel tentativo costante di ricrearle, quelle relazioni.

Una piattaforma digitale, un “Netflix” del teatro, è impensabile, quindi.

Molti, in questo tempo dilatato, hanno imparato a conoscere più da vicino il digitale: qualcuno demonizzandolo, qualcuno piegandosi alle sue esigenze, qualcun altro piegandolo alle proprie, qualcuno – il Ministro deputato allo spettacolo dal vivo – pensando che il virtuale si potesse direttamente sostituire al reale. Che dire: punti di s(vista)! Mi pare più plausibile, invece, che il teatro inizi a indagare con uno sguardo più attento al digitale come linguaggio specifico, traendone nuova linfa che gli permetta di nutrire meglio le sue relazioni reali.

In questi mesi la comunità teatrale che si è formata non vi ha abbandonato: quanto è importante scoprirsi utili e, forse, decisivi per una piccola o grande realtà pensante?

Hai ragione: si è fermato il teatro in tutti questi mesi, ma non si sono fermate le relazioni che il teatro ha generato. Siamo rimasti in contatto, ci siamo scritti, abbiamo sperimentato insieme a molti il folle esperimento di un laboratorio di scrittura ironica in piena pandemia, incrociando partecipanti da tutta Italia. Abbiamo comunicato che erano disponibili voucher di rimborso per la stagione di prosa e ci siamo sentiti rispondere da molti che non volevano indietro nulla. Molti ci hanno chiesto più di una volta se avessimo bisogno di qualcosa. Non so dirti, quindi, se utili o decisivi per qualcuno, e non spetta a me farlo, ma posso dire con certezza che siamo “insieme”, e che intorno a questo spazio pubblico è nata negli anni una comunità teatrale che prova a costruire un mondo che le somigli un po’ di più.

Emma Dante a Repubblica ha dichiarato: «È una ipocrisia istituzionale pensare che basta spalancare un portone perché i teatri riaprano». C’è stata troppa indifferenza per le sorti di un settore così fragile e ampio come quello dei lavoratori dello spettacolo?

Da sempre c’è questa indifferenza e una certa ipocrisia istituzionale dettata dal fatto che la cultura è la priorità di questo Paese (insieme alla scuola, ovviamente), ma mai in cima quando si parla di riconoscimento economico. Penso al paragone con altri Paesi europei – Francia e Belgio in primis – che ci ha accompagnato come un refrain in questi mesi di quarantena, ma anche al discorso agli artisti della Cancelliera Merkel a paragone con i rapidi riferimenti in conferenza stampa del nostro Presidente del Consiglio. Penso al fatto che allo spettacolo dal vivo sia toccato in sorte un Ministro che quando non è invisibile sembra sia lì un po’ per caso. La pandemia non ha creato questa situazione, ma ha finalmente fatto emergere tutta la fragilità del Sistema Spettacolo dal vivo mettendola sotto gli occhi di tutti. Mi auguro che l’attenzione resti alta e che la riapertura significhi anche interrogarsi sul campo – lavoratori e imprese, grandi e piccoli insieme – sui diritti dei lavoratori dello spettacolo.

Da un teatro del Sud come il vostro l’appello sembra chiaro: ripartiamo dalle periferie, dall’aiuto a chi genera spazi di comunità e opportunità economica e sociale. È così?

Il Teatro Comunale “Lucio Dalla” si trova nella popolare e popolosa periferia di una cittadina di provincia del Sud, attraversata da urgenze che definirei eterogenee, che spesso la portano agli onori della cronaca. A ciò si aggiunge che sull’intera provincia di Foggia – la più grande d’Italia per estensione – manca completamente il finanziamento ministeriale allo spettacolo dal vivo, eccezion fatta per una storica associazione musicale del capoluogo. Godere di finanziamento ministeriale in questo momento vuol dire essere tutelati quanto meno rispetto al rischio di sopravvivenza perchè già da metà marzo agli organismi sostenuti è stato riconfermato per il 2020 il medesimo finanziamento dell’anno precedente, senza l’obbligo di garantire (per motivi evidenti) le stesse attività. Eppure, oggi non sono molte le realtà che stanno pensando di ripartire, rimettendo così in moto i pensieri, le anime e anche le economie che magari toccherebbero indirettamente le realtà non finanziate e, soprattutto, i lavoratori. Ci si aspetterebbe che i soggetti tutelati da un finanziamento sentissero di dover adempiere a una precisa funzione pubblica ripartendo e fungendo da traino per altri. Non sta accadendo, non quanto dovrebbe. Perciò sì, mi sembra un segnale forte che la scintilla parta da una periferia culturale del Paese – in termini di riconoscimento. Vero è, tra l’altro, che negli ultimi anni le periferie, marginali rispetto alle principali direttrici culturali del Paese, si sono dimostrate artisticamente assai più generative dei grandi centri, contribuendo fortemente all’innovazione del sistema teatrale italiano.

Questa sera Bottega degli Apocrifi riparte da un sogno di mezzanotte, dalla musica e dalle parole giuste per cominciare un nuovo cammino. Quali guide avete scelto?

Non volevamo riaprire da soli, così abbiamo chiamato amici vecchi e nuovi da tutta la Puglia, immaginando una riapertura con la musica, dal jazz al dixieland, dal classico all’inedito; e le parole. Ci siamo accorti che per noi non è ancora tempo di parole nuove perchè abbiamo bisogno di ritrovare la nostra comunità per riscriverle. Abbiamo cercato parole, allora, fra coloro che consideriamo maestri e fra chi avesse raccontato con le sue parole quello che è per noi il teatro. Ne abbiamo scelti tre: Peter Brook, Majakovskij e Proust. Un saggio autobiografico, due poesie e un romanzo: tre stili molto diversi tra loro che ci riportano al senso di comunità, alla dignità del lavoro e alla capacità del teatro di aprire mondi attraverso i dettagli, che a pensarci bene sono le ragioni per cui consideriamo necessaria questa riapertura simbolica.

I luoghi, molto spesso, sono rituali, simboli, consuetudini. Materialmente in sala cosa cambierà e come si potrà accedere al teatro?

Per questa riapertura abbiamo scelto che ci fossero 50 spettatori, in modo da poter stare tutti assieme – a un metro di distanza – nel primo settore. Gli schienali delle poltrone che non verranno utilizzate sono stati smontati, quindi la sala apparirà visibilmente diversa per chi la conosce. È stato stabilito un percorso d’ingresso e uno di uscita: sarà possibile accedere solo con la mascherina, che dovrà essere indossata fino al raggiungimento del proprio posto. All’ingresso del teatro, contestualmente al controllo del titolo di accesso, verranno effettuati il rilevamento della temperatura, l’igienizzazione delle mani e il ritiro delle autocertificazioni per congiunti e/o coinquilini che abbiano acquistato posti adiacenti. Sarà strano per tutti: ci toccherà imparare a costruire nuove consuetudini insieme.

Nei giorni scorsi hai confessato sui social che, nel preparare questa serata, qualche lacrima è già scesa. Questa sera sarà più emozionante vedere gli attori in scena o il ritorno del pubblico, dopo questo lunghissimo silenzio, in sala?

Immagino che l’emozione più grande sarà assistere al loro incontro.

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