«The Place», Limoni giovani ed esperti accompagnano Galano il Temerario in una nuova sfida. E la vincono

by Enrico Ciccarelli

Esercizi di trasmutazione e traduzione di generi. «The place», l’ultima produzione del Teatro dei Limoni, nasce negli Stati Uniti nel 2010, come serie televisiva splendidamente interpretata da Xander Berkeley, con il nome de «Il tavolo in fondo».

Nel 2017 Paolo Genovese ne fa un film ambientato in un ristorante romano, che dà il titolo alla pellicola, con un gigantesco Valerio Mastandrea nei panni del protagonista. Ai giorni nostri Roberto Galano, che ama vivere pericolosamente, ne realizza l’adattamento teatrale e la regia per la  brigata di attrici e di attori di via Giardino. Testo adattato e sciolto in modo diverso dai precedenti, con un colpo di teatro –è proprio il caso di dirlo- che abbiamo trovato originale e accurato, ma non spoilereremo.

La storia, intrigante e intricata metafora del desiderio e del destino, è affascinante. Un individuo misterioso che siede in permanenza a un tavolo del locale, incontra una serie di postulanti che gli chiedono di esaudire un loro desiderio. Soddisfazione che otterranno se adempiranno agli obblighi che il misterioso demiurgo ricava da una sua bizzarra agenda, e che vanno dal banale all’atroce all’insensato. Come nel Castello dei destini incrociati di Calvino le storie delle richieste e degli obblighi vanno a intrecciarsi, il raggiungimento dell’obiettivo non comporta necessariamente un vantaggio per chi lo ha desiderato, il mancato compimento degli obblighi può rappresentare un fallimento o una redenzione.

L’uomo del tavolo, a cui Christian Di Furia presta un’impassibilità ieratica e un tedio degli altri molto azzeccato ed espressivo (peccato per qualche incallita inflessione vernacolare, perché la finezza interpretativa è davvero notevole), ha un che di divino e di impotente: più che un tentatore, è uno specchio delle miserie, delle futilità e delle ferocie della nostra vita quotidiana, delle nostre inani ribellioni al destino. Un demone malinconico, più rassegnato che malvagio, al modo di Bulgakov e Goethe.

Il registro dello spettacolo è molto diverso da quelli consueti alla Compagnia, che punta quasi sempre all’azione scenica. Questo, a parte i deliziosi e assai casti cambi d’abito in scena di Maggie Salice, è invece teatro di parola. Gli spettatori non assistono alle vicende, ma alla loro narrazione, e ne devono seguire muti l’intreccio anche quando se ne profilano i risvolti cruenti e sommamente ingiusti (non è forse in questa impossibilità del pubblico di intervenire, il maggior fascino del teatro?).

Anche privi del loro capocomico in scena, i limoneros se la cavano egregiamente. E se ce lo si può attendere da attrici e attori ormai esperti, come la camaleontica Maggie Salice, donna che vorrebbe riconquistare l’amore del marito, l’incantevole e sobria Paola Capuano, suora desiderosa di risentire la voce di Dio, e l’acuminato Leonardo Losavio, poliziotto in cerca di riscatto da un fallimento professionale e umano, stupiscono in positivo il baritonale, intenso e sofferto Massimo Iannantuoni, che vorrebbe richiamare sua moglie dalle nebbie dell’Alzheimer, l’affannato e disperato padre cui dà vita Stefano Dragoni, che vorrebbe la guarigione di suo figlio, l’impeccabile meccanico che sogna una notte con la diva del calendario, interpretato da Cristiano Russo, lo straordinario cieco che vorrebbe riacquistare la vista cui presta voce e gesto Stefano Graziani (d’altronde dalle parti dei Limoni si sviluppa una speciale capacità di interpretare non vedenti, come attestano precedenti illustri). In ruoli difficili perché di minor spessore degli altri, se la cavano benissimo la ragazza vanitosa di Nicole Piemontese e il giovane sbandato di Vincenzo Ficarelli. Da menzionare Elisabetta Campanella, che compare solo nella penultima scena, e per nessun attore è facile entrare a quel punto.

Contrariamente alle sue abitudini, stenta a carburare la brava Graziana Cifarelli, non pienamente in parte –a nostro avviso- nel ruolo della cameriera, cui conferisce inizialmente un eccesso di svampitezza che ricorda l’indigeribile performance di Sabrina Ferilli nella pellicola di Genovese. Va detto però che conduce con grande maestria il cambio di registro di un ruolo che diventerà cruciale.

Prova impegnativa superata a pieni voti, insomma, e un’ulteriore tappa di crescita per le giovani e i giovani di Via Giardino, che non per caso contrassegnano da sempre le loro stagioni con il titolo «Giallo coraggioso». Ne fa parte a pieno titolo questo spettacolo denso, a tratti aspro, con un plot impagabile, che ci ha fatto ripensare alla massima di Oscar Wilde secondo cui Dio, quando vuole punirci, esaudisce i nostri desideri e all’epigrafe di Dino Buzzati: «In cuor suo, Dio onnipotente vorrebbe che certe cose non succedessero, ma impedirlo non può, perché è stato da lui stesso deciso». Bravi, limoneros.. Bene. Bis.

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