Tre cose rimarchevoli de «La Cattiveria» di Laetitia Amoreo, una produzione del Teatro dei Limoni di Foggia per la stagione «Giallo coraggioso»

by Enrico Ciccarelli

Ci sono almeno tre cose notevoli in questo «La Cattiveria», che il Teatro dei Limoni ha proposto nel cartellone della sua stagione «Giallo coraggioso», sezione «in Patria». Innanzitutto il bel testo, umbratile, sofferto e prismatico di Laetitia Amoreo, che è anche coprotagonista della rappresentazione; in secondo luogo il fasto dell’interpretazione di Giuseppe Rascio, sul palco con Amoreo; terzo, ma solo in ordine di citazione, il brillante lavoro registico di Roberto Galano, che sceglie a postazione della voce fuori campo per una nuova puntata del suo permanente rapporto di amore-odio con il teatro, a cui ha dedicato e dedica buona parte della sua vita.

Concepito nel dannato biennio della pandemia, aautentica peste bubbonica per ogni forma di spettacolo dal vivo, «La Cattiveria» era stato inizialmente pensato come forma di teatro domiciliare, rappresentazione pret-à-porter da trasferire di casa in casa, in mancanza di spazi pubblici agibili; il testo, però, si è rapidamente intriso delle emozioni, degli interessi e dei palpiti dell’irrequieta ricerca dell’autrice, di solida formazione teatrale e robusta cognizione nei campi della psicologia e della psicanalisi.

Così i flussi di coscienza e i monologhi di Addolorata («che nome di merda da dare a una bambina») si intrecciano con l’accostamento agli archetipi junghiani, e il registro grottesco che da sempre caratterizza le produzioni del Teatro di Via Giardino si associa al rapporto irrequieto e irrisolto con la Summa Theologiae di tutti i teatranti del mondo, con il pallido principe di Elsìnore cantato da Shaespeare. Amleto è, esplicitamente o meno, carsicamente o a cielo aperto, la filigrana di un testo spiritoso e dolente, romantico e disperato, macabro e divertente.

Il plot è di disarmante fragilità: un morto che forse non è morto, una bara che forse non ospita chi dovrebbe, due prèfiche (la giovane Addolorata e l’anziana Incoronata) ingaggiate per piangere a pagamento un defunto di cui ignorano tutto. Rascio e Amoreo sono letteralmente irresistibili nei loro dialoghi in gramelot subappenninico mentre recitano le loro invocazioni e geremiadi (molto palesemente ispirate alla celebre scena di «Napoli milionaria» con la finta veglia funebre per Gennaro Iovine). Si ride molto, e di gusto, e si ammira la padronanza scenica di Rascio e la sua sorprendente versatilità nel mutare dei registri dal comico al solenne al drammatico.

La regia di Galano ci mette del suo, con un allestimento spartano dal punto di vista scenografico e dei gustosi interventi con voce impostata alla Carmelo Bene o alla Gassmann. Un interessante mix di intrattenimento e riflessione, con un testo che suggerisce più di quanto non dica e ha molte parti scritte in inchiostro simpatico, che hanno bisogno del calore dell’emozione per essere rese visibili. Si  finisce così per comprendere che il pretesto drammaturgico del decesso di un attore che impedisce una rappresentazione a due è il simulacro delle nostre paure. Che in quella bara potrebbe esserci il teatro minacciato dai morbi, l’amore sterminato dalla mancanza di empatia e comunicazione, Amleto soppresso dal fatto che nessuno si chieda più se essere o non essere.

In poche parole, un bello spettacolo, un attore che dovrebbe essere meno avaro di sé sui palcoscenici (certo, lavoro e famiglia sono ostacoli rilevanti, ma Rascio è talento distillato), un’autrice pronta a prove più impegnative (il proprio sé è un patrimonio prezioso per qualsiasi scrittore o commediografo; ma a lasciargli campo libero diventa una prigione), un capocomico che invecchiando migliora come il vino. Non perdetevi le repliche,

Nel video l’intervista a Laetitia Amoreo

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