Anna, la miniserie di Niccolò Ammaniti ‘profeta’. Il virus micidiale non cancella l’accumulo e i rimasugli di vita di un’infanzia violenta

by Nicola Signorile

La serie Anna è tratta dal romanzo omonimo pubblicato nel 2015, l’epidemia da Covid-19 è scoppiata sei mesi dopo l’inizio delle riprese”. Si apre con questa avvertenza la visione di Anna, miniserie in sei episodi Sky Original (prodotta da Wildside, in coproduzione con ARTE France, The New Life Company e Kwaï), creata e diretta da Niccolò Ammaniti dal suo romanzo omonimo edito da Einaudi. Una delle più belle sorprese seriali (finora) del 2021 è il secondo progetto per la tv dello scrittore Premio Strega, ancora con Sky dopo la prova convincente de Il Miracolo.

Un virus micidiale, La Rossa, ha spazzato via gli adulti dal mondo (sai che danno, penserà qualcuno!), una pandemia (!) che lascia indenni solo i bambini almeno fino al raggiungimento dello sviluppo. In realtà covano il morbo dentro di sé, li colpisce nel momento di passaggio all’età adulta. A quel punto anche il loro corpo si riempie di pustole rosse e muoiono. Sono esseri umani che non diventeranno mai adulti. In un mondo senza grandi devono imparare a vivere da soli, senza prospettive di crescita, né progresso. L’avvertenza iniziale sgombra il campo dagli equivoci: non si tratta di una instant series, tutto quel che si può imputare ad Ammaniti è di esser stato profeta, scrivendo più di sei anni fa una distopia ambientata in un mondo devastato da un virus che colpisce le vie respiratorie, ben più letale del Covid-19.

Una realtà estrema, post-civile, in cui non c’è spazio per mediazioni, dove le emozioni dei piccoli abitanti rimasti appaiono spasmodiche, vissute al massimo dell’intensità, come solo i bambini sanno fare. Solo che in Anna la luce, la gioia, il divertimento della scoperta della vita convivono, e spesso vengono sopraffatti, dal buio, dalle ombre, dal male. Più che a Il signore delle mosche, guardando Anna viene in mente il cinema di Matteo Garrone, le fantasie morbose del Racconto dei Racconti e le creature del suo Pinocchio, le schermaglie tra bande de La guerra dei cafoni di Davide Barletti e Lorenzo Conte e Mad Max Fury Road, per i guizzi creativi della costumista Catherine Buyse. Anna è una fiaba nera con i suoi Hansel e Gretel protagonisti, Anna (Giulia Dragotto), di 14 anni, e il fratellino Astor, di 9 (Alessandro Pecorella), che prima della Rossa vivono con la madre Maria Grazia (Elena Lietti) nell’entroterra siciliano, in una casa circondata e protetta dai boschi.

L’antefatto potrebbe far pensare a un prodotto per ragazzi, ma non è così. Quella di Niccolò Ammaniti infatti è un’opera tosta sulla natura umana, che parla soprattutto agli adulti. Li avvinghia in una morsa di angoscia latente, con alcuni momenti di grande impatto emozionale. Se a tutto questo si aggiunge la spaventosa attualità dell’operazione, possiamo dire che la visione di Anna è una esperienza bellissima e impegnativa, angosciosa e sorprendente. Qualcosa di nuovo sul fronte seriale, un barlume immaginifico nel panorama asfittico di questi tempi.

La base letteraria ha fornito solide fondamenta, sulle quali l’autore insieme all’abile penna di Francesca Manieri – che abbiamo già ammirato ne Il Primo Re, in We Are Who We Are, la serie firmata Luca Gadagnino, e nella precedente serie di Ammaniti, Il Miracolo – ha imbastito un impianto narrativo ricco, di personaggi e situazioni nuove rispetto alla pagina scritta, potente, suggestivo. Ma dove compie un deciso balzo in avanti, più che sulla parola, è nel grande lavoro sull’immagine. L’autore inventa un universo primordiale che vive dell’energia, a volte vitale, a volte mortifera, dei bambini. La cui potenza visiva si allontana dal canone del survival movie alla Walking dead: laddove lì c’è il vuoto, l’assenza, qui c’è l’accumulo, l’affastellarsi di oggetti una volta utili, oggi rimasugli di una vita passata. Le automobili accatastate ai margini delle strade imbrattate di sangue e immondizia, le case abbandonate e saccheggiate, piene di scatolette vuote e avanzi di cibo, magioni imponenti, teatro di battaglie tra bande di bambini cenciosi e palazzi nobiliari con il loro mobilio elegante trasformati in discariche. La bellezza naturale ed artistica dei luoghi colpisce, inebria, pur decadente, deturpata com’è dal degrado che la circonda e la abita.

Per lo spettatore è un’esperienza non comune: lo sgomento flirta con la repulsione, in alcuni momenti di violenza quasi casuale il turbamento tocca punte quasi insostenibili, soprattutto perché a esserne protagonisti sono esseri umani che difficilmente associamo alla spietatezza, i bambini. L’infanzia è ritratta nella sua forma più selvatica. In un certo senso in Anna è tutto un gioco. Agghiacciante, violento, ma pur sempre un gioco. Se viene a mancare un’educazione al vivere civile, non c’è distinzione tra giusto e sbagliato, non c’è consapevolezza del pericolo, si fatica a capire il valore di una vita umana. Lo vediamo nelle tante prove che Anna dovrà affrontare per ritrovare Astor, rapito da una banda di ragazzini chiamati i Blu. Ha promesso a sua madre di prendersi cura del fratellino, così parte per un viaggio attraverso una Sicilia trasfigurata.

Un non luogo bello e devastato, l’isola che non c’è capace di virare in un attimo dalla luce più abbagliante all’ombra più profonda, grazie alla fotografia cangiante e priva di artificiosità di Gogò Bianchi. La natura è infatti protagonista assoluta della serie – il cielo, il mare, le pendici dell’Etna, le foreste, le spiagge – si è riappropriata dei propri spazi ricoprendo i resti della civiltà. Gli animali vagano allo stato brado invadendo ambienti una volta riservati agli uomini. Le città sono in avanzato stato di decomposizione come i cadaveri che intravediamo talvolta ai margini delle strade ricoperte di oggetti. Il lavoro di scenografia e costumi è sensazionale, con ragazzine travestite da personaggi delle favole – le carceriere di Anna – e poi la Regina cattiva e i suoi “soldati”, i Blu, bambini dipinti di blu che vagano alla ricerca di nuovi adepti. Tutto è un gioco, dicevamo. Anche il ricordo dei reality show viene trasformato in un gioco mortale dalla fantasia malata di Angelica (Clara Tramontano). La regina dei Blu ha trasformato un’antica villa a Bagheria nel suo regno. Lei rappresenta l’eccesso, la follia, che si contrappone alla semplicità di Anna. Un contrasto sottolineato da trucco e costumi: Anna ha come riferimento lo stile sobrio della mamma della quale indossa spesso vecchi abiti, Angelica costringe la Picciridduna a confezionarle vestiti pazzeschi, come il costume fatto di soli gioielli da Madonna Sicula, quello realizzato interamente in macramè di fili elettrici o il vestito da sposa con le ossa inserite nei ricami del corpetto.

La Picciridduna, alias Katia (Roberta Mattei), è l’unica adulta sopravvissuta al morbo. Prima della pandemia era una sarta. Poco prima dell’arrivo del virus, ha conosciuto la bella e vitale Ginevra (Miriam Dalmazio), della quale si è innamorata perdutamente. Rimasta sola, ha incontrato la sorella di Ginevra, la piccola Angelica. Nel corso degli anni ne è diventata la schiava, costretta a realizzare abiti e inscenare la farsa della Picciridduna, l’adulto capace di salvare i bambini dalla Rossa. Roberta Mattei, la brava attrice romana di Veloce come il vento e Non essere cattivo, sembra specializzarsi in personaggi al limite come quello della Picciridduna – una donna con una particolarità fisica che non sveliamo, sporca, barbuta, incatenata – e della Vergine, calva e inquietante in Zero, un’altra interessante nuova serie italiana disponibile su Netflix.

Ottime le prove dei giovani protagonisti, molti alla prima apparizione sullo schermo, a partire da Giulia Dragotto (14 anni di Palermo), scelta fra oltre duemila candidate, e Alessandro Pecorella/Astor (9 anni), esordienti come Clara Tramontano e Giovanni Mavilla, che interpreta Pietro, un ragazzino che Anna incontra sul suo cammino e del quale si innamorerà. Perché, è bene chiarirlo, la favola distopica non lascia il campo libero alla disperazione e allo sconforto. Anzi, è costellata di gesti d’amore. Nonostante tutto conserva uno sguardo speranzoso verso il futuro di Anna e Astor (non spoilerando il finale, possiamo dire che è all’altezza di tutto il resto). Pensiamo al Libro delle cose importanti, una guida con i consigli e le indicazioni pratiche per affrontare i pericoli, scritta dalla mamma per sua figlia negli ultimi mesi di vita. Pericoli che la donna può solo immaginare, scrive, e che saranno i due bambini a dover trovare il modo di affrontare. Un ultimo atto di dedizione materna di una madre anticonvenzionale, imperfetta (finalmente!), incarnata perfettamente da Elena Lietti, che, oltre ad essere un vademecum per il mondo al di là del bosco, rappresenta la voce che dà forza ad Anna e le indica la via del bene. Ha il sapore della tenerezza anche il flashback che riguarda Pietro e il suo rapporto con uno strano personaggio interpretato da Nicola Nocella: ancora una volta l’attore barese lascia il segno in un ruolo breve ma intenso, un angelo della morte che rappresenta l’ultima traccia di umanità in questa distopia senza leggi né regole. Molto ben calibrata la colonna sonora eterogenea, a cominciare da Settembre di Cristina Donà sulle immagini della sigla, poi il synth-pop degli Alphaville, il rock psichedelico dei Mercury Rev, ma anche tanta musica italiana, Loredana Bertè, Mia Martini, Ornella Vanoni. E ancora Frank Sinatra, fino alle suggestioni tribali della partitura originale, firmata Rauelsson.

In conclusione, un consiglio: non perdetevi Anna, magari guardatelo accanto ai vostri figli. Assisterete al viaggio di una ragazzina ostinata che fa di tutto per riabbracciare l’amato fratellino. Un percorso durante il quale dovrà sopportare orrori, menomazioni fisiche ed emotive, superare prove, compiere missioni. Non è in fondo il cammino che tocca a ciascuno di noi attraverso la terribile e meravigliosa età della fanciullezza? Perché Anna è un coming of age che ci coinvolge tutti, un racconto di formazione magico e ancestrale, profondamente umano che celebra la forza dell’immaginazione.

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