Giri/Haji, la yakuza da Tokyo a Londra in una delle migliori serie tv dell’anno

by Nicola Signorile

La meraviglia della scoperta. La sensazione è di quelle che ripagano di ore spese a cercare qualcosa che lasci davvero il segno. In mezzo a un mare magnum di serie e film che avremo dimenticato nell’esatto istante in cui comparirà il fatidico The end sul piccolo o grande schermo. Poi, di tanto in tanto, succede. Di imbattersi in qualcosa di diverso dal resto, di nuovo e di bellissimo. Non è quello di cui tutti stanno parlando in questo momento – Tiger King o Hollywood di Ryan Murphy per dirne due – e non lo è stato nei mesi trascorsi del 2020. Giri/Haji – Dovere/Vergogna, miniserie prodotta dalla  Sister Pictures (quella di Chernobyl) è davvero qualcosa che vale la pena recuperare. Un noir, tra Londra e Tokyo, che tiene insieme una quantità di temi, di personaggi, di sottotrame e stili differenti senza perdere la compattezza del racconto.

Andati in onda nel Regno Unito, su Bbc Two, a ottobre 2019 e arrivati su Netflix a gennaio 2020, gli otto episodi sono incentrati sui fratelli giapponesi Mori, Kenzo (Takehiro Hira), detective della polizia di Tokyo, e Yuto (Yôsuke Kubozuka), ex sicario della Yakuza, spacciatosi per morto e fuggito a Londra.

Probabilmente non è uno show adatto al binge watching per due ordini di ragioni: la densità di ogni episodio e perché una buona parte dei dialoghi sono in giapponese. La morte del nipote di un boss della Yakuza, ritrovato in un appartamento londinese con una mini-katana conficcata nella schiena, innesca un complesso meccanismo che mette Kenzo sulle tracce di Yuto, che tutta la famiglia ha creduto morto per un anno.

Motivo ufficiale della trasferta inglese del poliziotto nipponico è la partecipazione a un seminario sulla gestione della scena del crimine, tenuto da una collega di nome Sarah Weitzmann (Kelly Macdonald). Kenzo Mori è un uomo serio, tutto d’un pezzo, dedito alla famiglia, disposto a molto per aiutare Yuto, persino a restare invischiato in guerre di mala tra gang locali.

Il rapporto tra i due fratelli è sempre al centro della serie. La loro rivalità. Il passato della famiglia Mori, svelato a poco a poco, in flashback. Tuttavia è solo una parte di Giri/Haji: lo sceneggiatore/showrunner Joe Barton infatti introduce continuamente digressioni che seguono personaggi apparentemente secondari, ma che all’improvviso rubano la ribalta. Deviazioni dalla via maestra che diventano all’improvviso la storyline principale, con toni e atmosfere che mutano continuamente. Un quadro intricato che spesso arriva a sfiorare il confine dell’eccesso.

Quando lo spettatore sembra sul punto di perdere l’orientamento, ecco che l’autore riprende in mano le redini. E tutto si incastra, alla perfezione, mantenendo una coerenza narrativa sorprendente. Ogni personaggio apporta qualcosa al disegno generale, anche il più strambo, lasciato a lungo in un angolo dell’inquadratura (occhio ai bolsi sbirri inglesi in trasferta giapponese). L’eccentricità in Giri/Haji non è un vezzo fine a se stesso, diventa parte integrante del racconto.

A voler disarticolare la serie, nelle sue pieghe ritroviamo il classico crime poliziesco inglese alla River o alla Luther; lo straniato Kenzo si muove tra alcuni quartieri del centro di Londra (Soho, Fitzrovia, West End) che almeno in principio fatica a decrittare. C’è naturalmente il gangster movie nipponico, tra Takeshi Kitano e Takashi Miike, con la sua violenza esplicita, sparatorie in ristoranti e le ritualità sanguinarie dei clan.

Non c’è solo il lato oscuro del Sol Levante, però. Giri/Haji è una full immersion nella cultura giapponese: il senso dell’onore e del retaggio, le usanze casalinghe e la sacralità della famiglia, il dovere e la vergogna causata dai fardelli del passato, a pesare sulle spalle di tutti i personaggi.

C’è il thriller d’azione con scontri ad alto tasso di adrenalina tra la gang di cockney vestiti tutti uguali, guidati dal bizzarro Connor Abbott (Charlie Creed-Miles) e un clan di mafiosi albanesi interessati alle fortune dell’improbabile faccendiere Ellis Vickers (Justin Long).

C’è il racconto di formazione, sessuale e sentimentale, della figlia di Kenzo, Taki (Aoi Okuyama), adolescente espulsa da scuola per aver accoltellato un compagno che allungava le mani. E Rodney (Will Sharpe), un cinico e divertente gigolò gay inglese di origini giapponesi, altro personaggio molto riuscito della serie, degno di un approfondimento. Di lui intravediamo, dietro il cinismo di facciata, il bisogno di una famiglia e di un posto nel mondo, una lotta interiore che sfocia nell’abuso di droghe, la ricerca di redenzione dopo scelte che hanno portato a tragiche conseguenze.

Sembra incredibile, ma si trova anche il tempo e lo spazio per un road movie al femminile che potrebbe rappresentare da solo un piccolo adorabile film indie. Senza dimenticare momenti comici e romantici che puntellano qua e là uno show che è sovrabbondante anche di idee registiche – dietro la macchina da presa ci sono Julian Farino (Entourage, Big Love) per i primi quattro episodi, Ben Chessell (The Family Law) per i restanti quattro – necessarie per tenere sempre il passo della narrazione. Mutando punto di vista di continuo e adottando soluzioni stilistiche differenti, in armonia con il momento della serie nel quale vengono utilizzate: split screen, intermezzi animati, bianco e nero, fino ad una intera puntata in flashback, utile a chiarire gli ultimi tredici mesi dei fratelli Mori e di Sarah;  qui scopriamo le ragioni dell’odio dei colleghi nei confronti della zelante poliziotta.

Tocco di classe è, nel momento culminante dell’ultimo episodio, nel bel mezzo di una sorta di stallo alla messicana, un sottofinale onirico, una sequenza in grado di sbalordire anche lo spettatore più scafato, sulle note della struggente Verses dell’islandese Ólafur Arnalds, in collaborazione con la pianista Alice Sara Ott. Una meraviglia per gli occhi capace, palesando plasticamente i sentimenti dei protagonisti, di spiazzare ed emozionare il pubblico (complimenti a Barton e soci!).

L’azione c’è, ma sono i personaggi il cuore dello show. E le ragioni intime che li muovono, sottolineate da una colonna sonora internazionale formidabile che spazia tra John Coltrane, Groove Armada, Boyz Noize, The Zombies, Tom Odell, Michael Kiwanuka, Charles Bradley, Lorn e tanti altri.

Notevoli le prove degli attori, a cominciare da Takehiro Hira, il suo Kenzo è un personaggio riflessivo, inizialmente spaesato in Occidente, diviso tra i doveri famigliari, la lealtà all’amato fratello e le ragioni del cuore. A tenergli testa, il connazionale Yōsuke Kubozuka (era il pescatore guida dei gesuiti in Silence di Martin Scorsese) ottimo nel ruolo di un gangster sui generis, un combinaguai, la pecora nera della famiglia Mori, che scopriremo esser mosso dall’amore più che da ogni altra cosa.

La forza del racconto sta anche nei ruoli “di contorno” della serie. L’impacciata e risoluta Sarah impersonata dalla bravissima Kelly Macdonald  (Boardwalk Empire, Okja, Black Mirror e tanto altro), il tenero rent boy di Will Sharpe, il gangster con la fissa per il Giappone di Charlie Creed-Miles, l’inflessibile boss della Yakuza, Fukuhara incarnato dal Masahiro Motoki, il protagonista di Departures di Yōjirō Takita, Oscar per il miglior film straniero nel 2009; infine, Aoi Okuyama, protagonista del bellissimo percorso alla ricerca della propria identità della teenager Taki. Nella speranza di non aver svelato troppo, non vi resta che farvi trascinare in questo viaggio affascinante tra l’Inghilterra e il Giappone. E godere, ancora una volta, della meraviglia della scoperta.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.