I diari di Andy Warhol, il futuro nel passato: il ritratto del padre della Pop Art in una New York vulcano di creatività

by Claudio Botta

Un Andy Warhol davvero privato, sorprendente, spiazzante, quello che viene esposto dai Diari curati dalla sua collaboratrice, amica, confidente Pat Hackett – che raccoglieva al telefono ogni mattina i suoi brevi resoconti e le confessioni più intime: un rituale iniziato dal 1976 dopo la sofferta elaborazione del trauma derivato dai tre proiettili partiti dalla pistola di Valerie Solanas  – pubblicati nel 1989 dopo la sua morte, e che Netflix ha ulteriormente sviluppato in una riuscita docuserie prodotta da Ryan Murphy, arricchita di testimonianze preziose e filmati inediti.

Il ritratto vero del padre della Pop Art, il sole intorno a cui ruotava tutta la galassia Factory e l’underground newyorkese e mondiale, una delle figure più importanti della seconda metà del Novecento, è lontanissimo dalle serigrafie seriali e coloratissime che lo hanno reso celebre e ricchissimo, e da quelli che hanno reso epocali le copertine e i numeri della sua ennesima creatura rivoluzionaria, la rivista Interview. Talentuoso ma insicuro, trasgressivo ma al tempo stesso molto religioso (cattolico praticante) e in permanente conflitto con la sua omosessualità vissuta con discrezione, animale da party ma davvero a suo agio in dimensioni più raccolte, attratto da bellezza e fascino ma con una percezione negativa della propria immagine, nonostante fosse così iconica e studiata, a partire dalla parrucca argentata che gli venne strappata una volta in pubblico (il suo incubo diventato realtà), la voce riprodotta attraverso l’Intelligenza Artificiale, Warhol non appare mai la celebrità venerata e il formidabile talent scout, anticipatore e creatore di miti e riti pagani quale era. La New York vulcano di creatività incontenibile e contagiosa fine anni ’60, quella in chiaroscuro anni ’70 e quella sfrenata e senza freni anni ’80 compaiono sullo sfondo, senza alcuna autocelebrazione o almeno compiacimento e soddisfazione per quanto fatto e per l’impero costruito in pochissimi anni, da modesto figlio di immigrati nato a Pittsburgh, in Pennsylvania.

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Descritto dalle cronache come freddo, distaccato, glaciale, quando incontra (o cerca) amore non esita a mostrarsi fragile, indifeso, sovraesposto come chiunque davanti a un sentimento profondo. La prima volta accade con il giovanissimo Jed Johson, incontrato alla Factory per la consegna di un telegramma, entrato nella sua orbita in punta di piedi e nel cuore con tatto e gentilezza, e diventato per anni inseparabile e ispiratore di gran parte delle sue fantasie, prima di iniziare una brillante – e soprattutto autonoma – attività di interior designer per star del calibro di Mick Jagger e Jerry Hall all’epoca sposati (per citarne solo due). Ma la sfera pubblica di Warhol, nonostante l’affetto, l’attrazione e l’infatuazione provate, ha ancora e sempre la prevalenza su quella privata, e sarà questa la causa della rottura sofferta ma inesorabile, dopo 12 anni, nel dicembre 1980. E per superarla Andy in profonda crisi inizia a mandare ogni giorno, per settimane, bouquet di rose a Jon Gould nel suo ufficio della Paramount a Los Angeles.

Si erano incontrati una volta attraverso un’amicizia comune e il corteggiamento durò mesi, soprattutto perché l’immagine di Gould era ostentatamente etero, e quando il loro rapporto (“E poi decido che dovrei provare a innamorarmi, ed è quello che sto facendo ora con Jon Gould, ma poi è troppo difficile. Voglio dire, pensi costantemente a una persona ed è solo una fantasia, non è reale” le prime parole annotate) sbocciò in una relazione durata cinque anni, soltanto pochissime persone conoscevano la verità, per il resto del mondo – familiari compresi – era un’amicizia, con camere separate (per finta) nelle notti trascorse insieme. Un rapporto solo apparentemente sbilanciato, perché se il coinvolgimento emotivo dell’uno è dichiarato ed evidente, quello dell’altro – morto ad appena 33 anni – è emerso dal ritrovamento casuale di dolcissime lettere e poesie dedicate all’artista, nella casa di famiglia ad Amesbury messa all’asta nel 2017.

 La difficoltà nel vivere apertamente la propria omosessualità verrà esasperata dall’incubo Aids, la nube che arriva all’improvviso negli anni ‘80 segnati in politica dalla presidenza di Ronald Reagan, e nella società da una sessualità sfrenata: il rischio contagio è altissimo, la diagnosi e la comparsa dei primi sintomi equivalgono a una condanna a morte, e Warhol racconta senza filtri in modo toccante il terrore vissuto e lo stigma, la condanna pubblica vissuta dalla comunità gay ritenuta dall’ignoranza dilagante vittima e colpevole dei suoi peccati e vizi: e la paura di ammalarsi, pur evitando qualsiasi contatto, accentuerà il suo distacco dalla mondanità che pure aveva contribuito in maniera determinante a creare e diffondere. Dal dramma personale e collettivo di almeno due generazioni travolte e spazzate via improvvisamente arriverà l’ispirazione per i suoi ultimi capolavori, le riproposizioni seriali in serigrafia dell’Ultima cena (partendo dall’opera di Leonardo da Vinci)su commissione dell’amico gallerista Alexandre Iolas (poi morto proprio di Aids), e The Last Supper (The Big C), in cui l’immagine del Cristo evoca raccoglimento e perdono, e la lettera C può essere interpretata come Cancro (l’Aids era stato infatti definito il Cancro dei gay nella sua esplosione e diffusione iniziale, prima che diventasse dilagante ovunque e riguardasse chiunque): non una semplice operazione commerciale, ma il suo modo di vivere, di interpretare e rielaborare sofferenza e dramma in una sincera e sentita cornice religiosa, di rappresentare la preghiera, la speranza, l’angoscia, sua e di tanti conoscenti, amici, affetti, e di vittime sconosciute, abbattendo qualunque steccato e pregiudizio.

Anche il rapporto con Jean Michel Basquiat è raccontato in tutta la sua evoluzione: la reciproca ammirazione iniziale, il guru riconosciuto e l’ex graffitaro emergente; la conoscenza stimolata dalle numerose affinità; l’intesa crescente che diventa un rapporto sempre più stretto – non di natura sessuale ma comunque di intesa e straordinario coinvolgimento – e poi una collaborazione che ha prodotto oltre duecento opere, i loro stili sovrapposti, le loro identità marcate e sfumate, in armonia e in conflitto al tempo stesso. Una rinascita per Warhol, che si sentiva considerato al tramonto e ormai relegato in un cono d’ombra, e la definitiva consacrazione per l’artista emergente. Ma una (pessima) recensione apparsa sul New York Times di un loro attesissimo vernissage, in cui Basquiat veniva relegato come giovane protetto dall’ombra del più noto, senza fare invece riferimento a un’ispirazione continuamente alimentata e condivisa da entrambi, alimenterà un distacco che la morte improvvisa di Warhol, il 22 febbraio 1987 per complicazioni insorte per un intervento alla cistifellea, renderà irrecuperabile. E avrà il tragico peso nella morte di Basquiat per overdose un anno dopo, il 12 agosto 1988.

Un viaggio affascinante attraversando epoche e figure entrate nella leggenda, quindi, da vedere per capire e riscoprire l’evoluzione non solo dell’arte, ma della società e della cultura, arrivata fino ai giorni nostri: perché prima di Mtv c’è stata la tv via cavo di Andy Warhol, perché prima dei reality e dell’invasione degli sconosciuti a ogni latitudine c’è stata la sua profezia “In the future everyone will be world-famous for 15 minutes”. Perché la globalizzazione, l’arte, la pubblicità, la società dei consumi ante litteram hanno un’immagine simbolo, ed è la zuppa Campbell. Perché il primo Commodore ha avuto come testimonial Andy Warhol, e perché un giovane Steve Jobs ha tempestato di chiamate sempre Warhol per fargli avere la sua creazione, per poi finalmente incontrarlo alla festa di compleanno di Sean, il figlio di John Lennon, e iniziarlo al disegno col computer.  Il futuro nel passato e il passato nel futuro, tra nostalgia e sogno, a portata di tutti, spettatori aspiranti attori.

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