In principio fu Perry Mason: storia del Legal Drama letterario, cinematografico e televisivo. L’avvocato-squalo incarna ciò che il cliente deve scongiurare

by Noemi Cionfoli

Il genere cinematografico giudiziario, – cosiddetto Legal Drama, Legal ThrillerCourtroom Drama – ha sempre riscosso un ottimo seguito di pubblico: un trend che sembra essere ulteriormente in crescita, con l’avvento sulle piattaforme streaming di nuove serie tv ambientate nel mondo legale.

La rappresentazione dell’avvocato nel cinema ha restituito agli spettatori, nel corso degli anni, una oscillazione fra tipizzazioni estreme: se è vero che il denominatore comune a tutte le messe in scena è quello del legale brillante nel trovare le soluzioni, fedele allo svolgimento del proprio mandato e intuitivo nella ricerca di linee difensive, è altrettanto vero che la trasposizione della professione forense sullo schermo risulta, troppo spesso, eccessivamente falsata da esigenze e ritmi della finzione scenica.

Non c’è dubbio che questa alterazione sia del tutto fisiologica, quando il protagonista-avvocato è un personaggio immaginario: l’effetto collaterale, tuttavia, è quello di ingenerare nel pubblico convinzioni errate circa la realtà degli ambienti giudiziari.

E questo, almeno ai colleghi in carne e ossa, non passa inosservato.

In principio fu Perry Mason: l’avvocato vincente per antonomasia, avvolto in eleganti abiti scuri e immancabili pochette da taschino, che accettava di rappresentare solo clienti della cui innocenza era già fermamente convinto. La sua abilità consisteva fondamentalmente nel portare alla luce la verità, dimostrando l’estraneità ai fatti del suo assistito e conducendo alla condanna del vero colpevole.

Il suo rigore morale, se da un lato eleva all’ennesima potenza le possibilità di vittoria del protagonista – Mason perderà, infatti, un solo un processo in tutta la sua carriera televisiva – dall’altro mette in evidenza tutti i limiti di una eccessiva semplificazione della figura professionale. Una caratterizzazione spiccatamente dicotomica che oggi, infatti, pare del tutto superata. Non a caso, la riscrittura del personaggio di Perry Mason per l’omonima serie, che ha debuttato negli Stati Uniti a giugno 2020 (ora in Italia su Sky Atlantic), lo ripropone in tutt’altra veste: un detective agli esordi, con la tendenza ad alzare il gomito e lo spettro post-traumatico della trincea di guerra in cui ha combattuto.

Nel periodo del primo Perry Mason, l’Italia non conosceva ancora la serialità televisiva di genere legal: la comparsa, a metà degli anni ’60, delle prime fiction a episodi, accanto ai più famosi sceneggiati, aveva infatti come protagonisti investigatori ispirati ai protagonisti di romanzi gialli di successo, come Nero Wolfe o il Commissario Maigret.

Gli avvocati spadroneggiavano, piuttosto, nelle commedie, ed erano rappresentati con tratti spiccatamente macchiettistici, quasi fossero una nemesi dell’austero collega americano interpretato da Raymond Burr.

Per citare un esempio, l’episodio Il Processo di Frine di Alessandro Blasetti – contenuto nel film Altri tempi del 1952 – incide nella memoria collettiva la figura del difensore che non arringa, ma gigioneggia, davanti alla folta platea maschile presente in aula, per mandare assolta la bella assistita Maria Antonia, accusata di aver avvelenato la suocera. Perfino la toga, nella rappresentazione, diventa un accessorio di scena, utilizzato come drappo per celare dapprima, e scoprire poi – con un vero coup de théâtre – la prosperosa scollatura dell’assistita, interpretata dalla giovane Gina Lollobrigida. Inoppugnabile la conclusiva, sentita richiesta assolutoria dell’avvocato Vittorio De Sica: “questa nostra legge prescrive siano assolti i minorati psichici. Ebbene, perché non dovrebbe essere assolta una maggiorata fisica?!”. Applausi!

Poco meno di dieci anni dopo, nel 1961, in “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, è possibile rintracciare uno schema analogo: ancora una volta l’imputata è una donna, che l’istrionico avvocato De Marzi difende tuonando un’arringa tanto forbita quanto teatrale: “mentre il treno correva, così, come un incubo incessante, dovea risuonare il mistico fragore delle ruote degli stantuffi alle orecchie deliranti della povera Mariannina Terranova: ‘disonorata! Disonorata! Disonorata! Disonorata! Disonorata!’…”. Proprio questo collaudato mix di pietismo e tendenza al melodramma dell’avvocato De Marzi, “che non arrivò a parlare delle sante Crociate, ma chiamò in causa Otello e compare Turiddu”, di lì a poco varrà al protagonista Marcello Mastroianni, nei panni di Fefé, il riconoscimento del delitto d’onore.

Questi esempi, per quanto certamente non esaustivi, sono tuttavia utili a rendere l’idea del profondo divario che, già dagli anni ‘50, ha caratterizzato la rappresentazione cinematografica dell’avvocato, polarizzata fra stoica morale e becera caricatura.

La serialità contemporanea sembra invece più orientata a dipingere l’avvocato come un cinico affarista, che pone la propria bravura al servizio di un esercizio spregiudicato della professione: è ciò che accade anche quando le serie tv ci offrono figure ibride, che coniugano tratti da villain a caratteri marcatamente kitsch.

Quest’ultimo sembra essere il caso di Saul Goodman, comparso al pubblico dapprima nella serie tv Breaking Bad e poi, come protagonista, nello spin-off Better Call Saul, che ha riscosso altrettanto successo.

Fra le tonalità sgargianti delle camicie, che spaziano dal giallo limone al verde mela, passando per il rosa shocking, i cravattoni improbabili e l’immancabile riporto sulla calvizie incipiente, Saul Goodman è l’emblema del cosiddetto bus-bench lawyer, ovvero dell’avvocato a basso costo che si fa pubblicità sulle panchine alla fermata degli autobus. Saul è un professionista senza scrupoli, clamorosamente creativo nella ricerca di soluzioni al limite della liceità o, più spesso, pacificamente fuori dai confini della legalità. Sebbene la stravaganza, da un lato, e la fervida inventiva, dall’altro, lo rendano dannatamente irresistibile al pubblico, il personaggio di Saul non restituisce certo un’immagine rosea dell’avvocato, alimentando il mito del penalista di dubbia moralità, pronto ad utilizzare ogni mezzo per raggiungere il proprio fine.

L’equilibrismo di questa tipologia di legale da Courtroom Drama, sempre in bilico fra l’essere brillante e il credersi al di sopra delle regole, sopravvive anche quando l’elemento grottesco cede il passo a una rappresentazione dichiaratamente seria delle dinamiche di uno studio legale e dei suoi professionisti.

Prendiamo Harvey Specter, il brillante avvocato newyorkese specializzato nella negoziazione di contratti, protagonista della serie tv Suits. Affascinante e patinato, Harvey esordisce, nel primo episodio, intento a giocare una partita di poker. È presto costretto ad abbandonare il tavolo per correre in supporto di Jessica, capo del suo studio, alle prese con i malumori di un cliente non più intenzionato a siglare un accordo. Il suo sarà un intervento provvidenziale, visto che basterà un diplomatico: “ora porta le tue chiappe di là e firma questo maledetto contratto” a liquidare i malumori del cliente, che nemmeno Jessica – donna al vertice dello studio ma, evidentemente, non abbastanza autonoma per gestire la situazione da sola – era stata in grado di affrontare.

Per esplicitare ulteriormente la calzata a pennello dell’abito da vincente, nella scena successiva Harvey ci viene presentato nell’atto di approcciarsi alla cameriera Lisa con un secco “a che ora stacchi stasera?”. Solo per un momento crediamo che lei gli abbia dato picche, perché di lì a poco la vedremo svegliarsi di buon mattino nel letto del Nostro che, rientrando in stanza dal terrazzo del suo lussuoso appartamento, darà ancora una volta sfoggio delle sue abili doti di negoziatore: “è stato bellissimo, ma ora te ne devi andare. Odio saltare la palestra, e devo essere in ufficio per le sette e mezzo”.

In effetti, Harvey è impegnato a selezionare un nuovo associato che sia “un altro me”. L’identikit è disegnato prontamente dalla collega Donna: “ho capito: arrogante, egocentrico, millantatore, che si senta il più furbo del mondo”.

Non c’è che dire, un perfetto avvocato-alfa.

Sia chiaro, la rappresentazione del legale come soggetto narcisista, sicuro di sé al limite della tracotanza, non ha nulla a che fare con il machismo, perché è perfettamente applicabile anche a corrispettivi ruoli femminili.

Prendiamo la serie “How to get away with a murderer” (nella versione italiana, “Le regole del delitto perfetto”): l’avvocato penalista e docente universitaria Annalise Keating, fin dalla prima lezione del suo corso, esaspera la competizione fra gli studenti – presenta, ad esempio, l’allievo che si sta distinguendo per capacità come “colui che per voi dovrebbe essere l’obiettivo da distruggere” – e in Tribunale non disdegna di utilizzare, sotto gli occhi ammirati dei propri corsisti, ogni mezzo per vincere la causa: la sottoposizione al testimone di un documento il cui utilizzo è processualmente vietato, la chiamata a deporre del proprio amante-detective per screditare l’attendibilità di una prova sfavorevole raccolta in assenza di quest’ultimo da un sottoposto, solo per citare alcuni esempi.

“Voglio essere come lei!” esclamerà in estasi da Stendhal, al termine dell’udienza, una delle più brillanti studentesse che frequentano il suo corso.

L’elenco dei titoli citati, per quanto inevitabilmente parziale, rappresenta una buona fetta del mercato dei legal drama di successo attualmente disponibili in streaming.

È vero che, con i successivi snodi della linea narrativa, alcune caratteristiche dei protagonisti, all’inizio esacerbate, possano lasciare il passo al tratteggio di una più o meno vasta gamma di chiaroscuri. Ed è altrettanto evidente che la solida caratterizzazione del professionista e l’esasperata teatralità dei suoi gesti in aula – goffi, nelle commedie degli anni ’50, da deferimento all’Ordine, nelle più recenti messe in scena – rappresentano stratagemmi necessari al funzionamento della sceneggiatura, quantomeno in termini di appetibilità del racconto agli occhi dello spettatore.

Tuttavia, il rovescio della medaglia di questo approccio consiste nell’appassionare il pubblico a una dimensione legale che nella maggior parte dei casi non è – oserei dire, fortunatamente – aderente al reale. Un avvocato che vìola le regole deontologiche, intimidisce i testimoni e tratta con arroganza i colleghi, il più delle volte non riceverà l’ammirazione dei suoi pari o l’indulgenza passiva dei giudici: semmai, rischierà di mettere a repentaglio gli stessi interessi del proprio assistito.

Ma, soprattutto, un difensore con queste caratteristiche – diversamente da quanto alcune serie tv tentano di farci credere – non rappresenta affatto il modello a cui tendere: al contrario, l’avvocato-squalo, sgomitatore dai tratti mitomani – intendendo per “mitomane” colui che crea e alimenta, innanzitutto, il mito di se stesso – incarna esattamente tutto ciò che un cliente dovrebbe scongiurare, se intende affidare la propria sorte giudiziaria ad un professionista eccellente.

In questo senso, il difetto maggiore della serialità contemporanea a tema legal sembra essere la diffusa tendenza degli sceneggiatori a ricercare una vittoria facile, affabulando lo spettatore con giochi di prestigio giudiziario che dribblano sapientemente il rischio di addentrarsi troppo nei veri, complessi, interrogativi di una meravigliosa professione.

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