La serie “rossa” di Netflix: tra innovazioni e (non poche) ingenuità

by Gabriella Longo

Avevamo lasciato la banda del Professore a godersi la buona riuscita del colpo alla Zecca di Stato: ognuno aveva preso la propria strada, quando poi, a distanza di un anno dalla rapina, Raquel – che ormai ha attaccato la divisa della polizia al chiodo – segue un paio di indizi e giunge nelle Filippine da Sergio.

A questo punto, certi della fine del piano alla Zecca, ci si è domandati dove avrebbe potuto portare una terza stagione, mettendone in discussione persino il titolo. La notizia della probabile ricomparsa di Berlino, però, spingerebbe questa nuova parte verso un’altra strada: non più quella di un colpo, ma di un piano per salvare il fratello del Professore, da tutti creduto morto nella sparatoria finale e adesso in custodia presso la polizia (mai sottovalutare la regola aurea del cinema: se non vedi il morto con i tuoi occhi, allora è probabile che non ci sia nessun morto).

Luglio è stato davvero un mese di fuoco, per Netflix di sicuro. Aspettiamo venerdì 19 luglio, per vedere l’evoluzione de La Casa di Carta, con un casus belli completamente nuovo rispetto alle prime due parti.

Divenuta presto un cult, è la serie non anglofona più vista sulla piattaforma, alla faccia dei molti suoi detrattori; ma è proprio in casi come questo che la logica del “purché se ne parli”, fornisce al fenomeno almeno la metà del successo che ha ottenuto. Nel bene o nel male, dividendo il pubblico abbastanza nettamente, la querelle sulla serie di Álex Pina che ha debuttato nel maggio del 2017, ha contribuito in questi anni a mantenerne viva l’attenzione.

La premessa, quella di organizzare una rapina alla Zecca di stato è, di per sé un grande leitmotiv, nonché un bell’omaggio che la televisione fa all’heist movie. Aggiungiamoci poi il fatto che questi moderni Robin Hood, vestiti con le tute arancioni e la maschera di Dalì (impossibile non pensare al gruppo di rapinatori di Inside Man), hanno persino un codice deontologico e morale a cui attenersi, stilato e corretto dal Professore, la mastermind a capo di tutto: nessun campanello di banca suonerà dopo che il ladro ha raggiunto la cassaforte, non questa volta. L’obiettivo non è mai appropriarsi del denaro di qualcun altro, ed è per questo che si è puntato più in alto, direttamente dove il denaro viene stampato. Stampare, dunque, e mettere in circolo contanti, è il desiderio del Professore &Co, ma non per le banche, bensì per “l’economia reale”- come la definisce lui- ossia per la gente comune, non per la finanza.

E qui viene la riflessione più importante, nonché l’assunto di sicuro più innovativo della serie, che getta peraltro una luce sinistra sulla facilità dei metodi di privatizzazione della moneta nel tessuto della BCE: che valore ha oggi il denaro? Il Professore lo dice a Raquel che ciò che ha per le mani è soltanto carta, senza un valore di per sé, ma che, paradossalmente, è chiamata a darne uno a qualcosa che un valore proprio ce l’avrebbe. Questo, dunque, ha generato l’iconicità di personaggi come Rio, Tokyo, Berlino… “criminali gentiluomini” simboli della lotta allo status quo, vestiti come gli ostaggi perché non ci sia fra loro alcuna differenza, chiamati tutti a svolgere lo stesso compito e cioè quello di stampare, per colmare quel gap che Marx avrebbe definito “fra interesse particolare e collettivo”. Fra loro nascono persino storie d’amore -nonostante una delle regole del machiavellico Professore le vieterebbe categoricamente-, come quella fra Denver e Mónica Gaztambide, che da segretaria e amante del massimo dirigente della Zecca, diventa complice dei rapinatori-sequestratori, vittima della sindrome di Stoccolma. Strizzando un occhio ai nostri tempi, ci sono poi delle cose che faranno sempre un certo effetto: come l’ulitizzo di Bella Ciao, cantata dal Professore e Berlino nel ricordo del nonno, estrema manifestazione della lotta contro ogni forma di oppressione.

C’è stato poi, in particolare nella seconda parte della serie, una riflessione di natura morale esemplificata dalla storyline di Raquel, e in particolare del suo rapporto fra la polizia e il gruppo di banditi: la legge ha sempre ragione? “Non so più chi siano i buoni e chi i cattivi”, sintetizza dopo aver conosciuto il Professore, ed è chiaro che la scrittura dei personaggi voglia condurre a questo: empatizzare per il cattivo, mettendo in discussione la bontà del buono, assurgere il micro-Stato creatosi nella Zecca, come esempio di cooperazione fra lavoratori, regolato da leggi ben precise, da opporsi radicalmente all’anarchia vigente nel mondo esterno.

Accanto alla forza evocativa e alla potenza del concetto dietro La Casa di Carta, c’è l’incalzante ritmo narrativo che tiene lo spettatore incollato allo schermo. Decisamente un lavoro da lode, se si pensa che si tratta di una serie nata per la tv generalista spagnola, ma della quale non possono passare inosservati i molti buchi nella sceneggiatura, ingenuità nella costruzione delle storyline, nonché gli immancabili momenti da soap opera che ricordano tante telenovelas di successo, e che, in molti casi, hanno persino fatto scordare a certi fan, le molte qualità di cui sopra. Ne è la dimostrazione la love story fra Tokyo e Rio, sempre “un po’ troppo”, con qualche toccata del patetico in più punti, o la facilità con la quale la ragazza riesce sovente a mettere a repentaglio l’intera operazione. L’obiettivo di Pina è stato forse proprio questo: rendere la componente umana l’unica cifra imprevedibile rispetto al suo consueto intervento da deus ex machina (ed ecco perché vietava rigorosamente le relazioni amorose). Ma su delle premesse di base ambiziose, è dura non notare la semplicità di attuazione di certe dinamiche, perlopiù abbastanza evitabili, che mettono in luce una certa spiacevole superficialità in alcuni punti della scrittura.

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