La tv poetica di Domenico Iannacone: «È il momento di riconquistare la sostanza. Bisogna ridare calore alle parole»

by Felice Sblendorio

Domenico Iannacone fa una cosa che in pochi riuscirebbero a fare: racconta la realtà, in televisione, senza retorica, senza enfasi eccessive, senza moralismi. Un pericolo dietro l’angolo, considerate le tematiche che affronta da anni nei suoi programmi, prima con il fortunato “I dieci comandamenti” e ora con “Che ci faccio qui, in onda questa sera alle 21.45 su Rai3 con una puntata dedicata a Taranto, “La polvere negli occhi”. Iannacone, sempre sospeso fra la poesia e l’ascolto, racconta le diseguaglianze trasformate in esclusioni, le povertà, le periferie, il ricatto occupazionale, l’immigrazione, la salute.

Racconta un mondo che esiste, che resiste silenziosamente nelle piaghe del nostro Paese, in attesa che qualcuno se ne accorga o, come fa questo giornalista, se ne prenda cura. bonculture ha intervistato Domenico Iannacone.

In un mondo che trova interessante solamente l’aspetto straordinario della vita, lei racconta l’ordinario con inchieste morali, storie minime, ritratti umani. Perché?

Parto sempre da De Sica e da “Ladri di biciclette”. Quando De Sica decise di fare quel film si chiese: a chi mai potrebbe interessare la notizia del furto di una bicicletta di un povero cristo? A nessuno, perché se ne rubano tante. Questa dimensione dell’unicità e della piccola dimensione umana, però, ti permette di creare una narrazione universale, di allargare il campo visivo. Quell’idea di De Sica mi ritorna spesso in mente perché mi permette di trovare nelle piccole cose un valore assoluto.

Da quasi dieci anni si immerge in queste storie, diventa un tutt’uno con la realtà che racconta. I suoi programmi hanno una profondità e uno sguardo quasi sociologici.

A me interessa varcare i confini delle storie, della conoscenza di un luogo, della dimensione umana che abita quel luogo. È un lavoro quasi sociologico, antropologico: amo molto il meccanismo dell’osservazione partecipante. Ho bisogno di sporcarmi le mani con i luoghi e con le storie perché questo mi consente di avvicinarmi a una dimensione reale: più mi avvicino e più capisco pienamente le ragioni dell’altro. Mi sono reso conto, negli anni, che la distanza tra noi e gli altri è data dal nostro approccio, da come ci muoviamo. La verità, se non riusciamo a entrare in una dimensione empatica, non trova sblocco. Bisogna varcare quel confine, bisogna mischiarsi con l’altro: più contaminiamo il nostro esistere con quello degli altri e più saremo vicini a quell’umanità che, spesso, consideriamo cosa diversa da noi.

Come le arrivano le storie che racconta?

Ho ripescato storie che hanno attraversato la mia vita professionale ed erano rimaste impigliate dentro di me. In altri programmi non avevo avuto il tempo giusto per raccontarle. Il lavoro che ho fatto in questi dieci anni è una sorta di magazzino immaginario in cui hanno trovato alloggio, ospitalità, tempo e spazio tante storie che mi erano rimaste impresse. Fondamentalmente, poi, sono curioso: mi intrufolo nei posti, incontro personaggi incredibili perché rivolgo a loro una parola o incrocio il loro sguardo. La scelta delle storie è qualcosa che ha molto a che fare con l’istinto.

Nei suoi racconti rallenta il ritmo, coltiva il silenzio, ascolta. Perché sente la necessità di soffermarsi?

Quando proponevo questo rallentamento mi consideravano un marziano: per me, invece, era ed è la volontà di non omologarmi a un’accelerazione innaturale. Nelle mie esperienze televisive da inviato, piano piano, mi è stato sottratto il tempo a disposizione per raccontare le storie. Sottraendo quel tempo è come se io non avessi più avuto la possibilità di essere onesto con chi avevo di fronte. Non avere il tempo giusto per raccontare una vita o un’emozione non stabilisce un rapporto leale con chi decide di farsi raccontare da me. Questo mi ha spinto a prendermi una licenza, che poi non è una vera licenza, ma è una necessità della vita: il tempo giusto per raccontare la pienezza di una cosa. Oggi è il mio modo di raccontare: le mie pause servono a sedimentare quello che voglio trasmettere, servono a valorizzare quello che gli altri mi dicono.

Le pause, banalmente, fanno parte della nostra vita.

Esattamente. Nella vita abbiamo dei tempi che sono deputati all’ascolto, che non sono tempi morti, ma sono vivi. Bisogna creare una relazione stretta fra parole e ascolto. Al centro, però, serve il silenzio, servono le pause. Sono elementi catartici della nostra vita.

Nelle ultime stagioni non c’è più l’utilizzo della sua voce fuori campo. Lei determina o asseconda la narrazione?

Negli ultimi anni c’è stata una sorta di rarefazione del mio apporto: sono diventato testimonianza vivente, senza la possibilità di essere determinante. Mi piace che la storia si determini da sola, che abbia la capacità di narrarsi autonomamente. Quando una storia si narra da sola significa che ha un suo valore. Io la monto, la indirizzo, ma in buona sostanza le permetto di essere autonoma. Quando scrivo un testo credo che quel testo non debba mai essere inferiore alla forza della testimonianza. Devo concepire qualcosa di alto, sennò preferisco non dire nulla. È uscito un mio podcast su RaiPlay Sound, “Il sillabario delle emozioni”, in cui c’è una scrittura perché sono io che osservo me stesso e racconto le mie emozioni in un atto volontario di svelamento. Con le storie, invece, preferisco che abbiano la forza solitaria di camminare da sole, di determinarsi. Mi ritengo, proprio per questo atto maieutico, una levatrice che fa nascere qualcosa. Il mio compito è questo.

Nel suo stile c’è una poetica del linguaggio e una fede nella parola: sembra un esercizio di accordatura delle voci.

È una questione di alchimia. Le persone capiscono sempre qual è la propria metrica. La poetessa Amelia Rosselli, che ha scritto un libretto intitolato “Spazi metrici”, mi diceva che ognuno di noi ha una propria metrica, ognuno di noi ha un modo diverso di scandire la parola, di sussurrarla, di concepirla. Questa varietà consente all’altro di riconoscerti.

Le persone affidano a lei storie, silenzi, disperazioni, pianti. Come si protegge la dignità di ogni singolo uomo?

Su questo tema è come se avessi scritto un patto con me stesso: non far mai perdere la dignità di chi ho di fronte. Mi è successo in passato di avere un potere assoluto sulla persona che intervistavo, di avere una forza completamente sbilanciata, ma questo è aberrante. Nel momento in cui percepisco questo sbilanciamento sento il dovere di fermarmi, di non oltrepassare quel confine. Mi succede, ma quando comprendo di essere più forte mi fermo. La televisione non deve mai sfruttare la sua forza a svantaggio dell’altro.

Quasi mai ci riesce.

Ci siamo abituati a spingerci oltre, a spremere il limone per poi buttarlo. Ormai non utilizzo più nemmeno le telecamere nascoste: è un atto sleale. Dobbiamo avere un rapporto paritetico per scambiarci le nostre emozioni: uno di fronte all’altro, occhi negli occhi.

La verità, nel racconto televisivo, che cosa dovrebbe essere?

La verità non deve mai essere qualcosa che ci siamo immaginati prima, anche perché è sempre qualcosa di differente. Bisogna non crearsi delle verità o delle false verità prima di un incontro, prima di un attraversamento. Io non faccio mai una scaletta delle domande perché ho bisogno di un approccio fisico. Così si apre il mondo, si rivelano la sua e la mia vita. Non pongo mai questioni ideologiche prima di incontrare qualcuno.

Nel riconoscere e nel riconoscersi in queste storie, com’è cambiato Domenico?

Io credo di essere la somma di tutte le vite che ho incontrato. In questi anni sono emotivamente cambiato: c’è un lavoro psicologico che pongo in essere con gli altri che è molto doloroso. Nell’ascoltare io assorbo, e col tempo ho imparato a liberarmi di quel dolore perché non potrei sopportare il peso di tutte quelle testimonianze. Anche se è un’illusione: puoi toglierti tutte storie che vuoi, puoi farle decantare, ma io sento di essere una persona molto diversa dopo gli incontri che ho fatto.

Lorena Fornasir, che cura materialmente i piedi dei migranti, nell’episodio “Nelle tue mani” ha raccontato: «Il dolore insegna a stare in presenza, al cospetto del dolore». È indispensabile questa vicinanza per comprendere il sentimento del dolore?

Durante il lockdown ho avuto un problema: non riuscivo a stare vicino alle persone. Oramai ero abituato a toccare le cose, a toccarle fisicamente. Mentre racconto io cammino vicino agli altri, entro nelle case, sfioro gli altri perché questa prossimità mi consente di dire: io ci sono, sono te stesso, puoi fidarti. Per comprendere il dolore è necessario entrare nelle vite degli altri, entrarci in profondità. Lorena, che cura i piedi dei migranti, lo fa in maniera totale, avvicinandosi ai loro corpi. Il suo è un gesto di cura e gentilezza. La mia vicinanza narrativa deve tentare di seguire quella sua modalità.

Il giornalismo spesso tradisce e abbandona le storie, mentre lei torna a incontrare persone e comunità che aveva già raccontato.

Ritornare è un’esigenza che sento sempre più forte. Con alcuni protagonisti delle mie storie sono in contatto e conosco lo sviluppo della loro vita, mentre con altri – come i ragazzi di Borgo Vecchio a Palermo – avevo voglia di capire che cosa fosse successo alle loro esistenze. La vita avanza, e ti propone vecchie storie in una chiave nuova che merita di essere raccontata con dinamiche differenti. Vorrei fare una serie per riprendere quelle storie e per avere la possibilità di raccontare i cambiamenti del Paese: come va avanti, oppure come torna indietro.

Le persone cambiano, mentre i luoghi restano identici. Si è mai chiesto a che cosa serva il giornalismo se, come spesso accade, nulla cambia?

Il giornalismo ha il compito della testimonianza, non soltanto della denuncia. Io voglio sempre tenere acceso un riflettore su alcune istanze. Borgo Vecchio, per me, è un’istanza, una ferita aperta. Fin quando qualcuno non la racconterà sarà una ferita sanguinante non ancora cicatrizzata. Ha bisogno, dunque, di essere supportata per avere voce. Alcuni luoghi hanno ancora bisogno di una narrazione.

La sua è una tv politica, civile. Racconta temi urgentissimi che, però, nel Paese non hanno né rappresentanti né titolari.

Apparentemente non mi occupo di fatti inseriti nell’agenda politica, ma credo che il mio programma sia il più politico della tv. Forse viene sottovalutato, ma io coltivo la libertà di affrontare tutte le tematiche, sfuggendo dalle dinamiche politiche che piegano la cronaca giornalistica. Il mio programma è libero perché non ha alcuna specificità da ribadire. La mia modalità di racconto è sganciata da condizionamenti, è anarchica.

È sganciata anche dalle poche emergenze del momento che occupano tutta l’attenzione mediatica.

La tv in questi due anni, un po’ per esigenza e un po’ per rendita di posizione, ha deciso di raccontare sempre la stessa cosa. Spesso trattata in maniera sterile, senza che ci fosse un avanzamento del grado di comprensione, di varietà, di compenetrazione. Questo vuol dire che si è creato un indebolimento della capacità dell’interesse verso le cose del mondo. Il telespettatore è stato anestetizzato e la televisione ha svolto un ruolo di oppiaceo delle emozioni.

Al cospetto di queste vicende umane, come dovrebbero cambiare di significato parole come diritti, democrazia, Stato?

Bisognerebbe ricominciare, a proposito di pregnanza del significato, una sorta di alfabetizzazione emotiva che abbia a che fare con i diritti. Diritti ed emotività devono farci riscoprire il significato profondo di quello che facciamo e pronunciamo. La parola democrazia non può essere distante dalla pratica della democrazia. I diritti non possono essere nominati in maniera sterile senza che ci sia una reale capacità di immaginarli, di rivendicarli. Siamo abituati a un linguaggio lontano, legato solamente alla forma. Ora è il momento di riconquistare la sostanza, la parte che c’è dietro le parole. Dobbiamo, per dirla con Mario Luzi, ridare calore alle parole, facendole rivivere nella profondità di concetti come diritti, democrazia, libertà.

Nonostante le asprezze, nei suoi racconti c’è sempre la traccia di un Paese migliore.

C’è sempre una luce. Sono piccole feritoie, ma c’è sempre una luce che entra e rischiara. Non c’è mai disperanza o un annullamento assoluto. Sento sempre che, anche nelle condizioni più estreme, tutti hanno bisogno che ci sia un cono di luce in grado di illuminare l’esistenza. Io ci entro in quel cono, e mi accorgo che ci sono delle cose straordinarie che addolciscono le asperità più dure. La luce arriva sempre: nei luoghi più inaspettati e strani. E in certi posti in cui non avrei mai pensato potesse resistere.

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