La vita bugiarda degli adulti, tutta la Napoli degli anni Novanta della serie Netflix

by Molly Clauds

Quando uscì il romanzo di Elena Ferrante “La vita bugiarda degli adulti” il 7 novembre del 2019 – in un’epoca che mi sembra lontana secoli, prepandemica, dove gli umori, i fiati,i liquidi degli umani si mescolavano senza timore in convegni, cinema, teatri, pizzerie superaffollate, librerie con ipogei stracolmi per qualsiasi firmacopie – acquistai il libro quasi in anteprima, grazie all’insostituibile e troppo colto libraio indipendente cittadino (che non credo che abbia mai letto l’autrice segreta).

Divorai avidamente il libro, pur non provando le stesse emozioni della saga di Lila&Lenù.

Anzi mi sembrò un po’ arronzato- per usare il gergo napoletano- verso il finale. Lasciato aperto per un secondo volume? O perché la storia era diventata troppo fragile?

Il romanzo mi apparve poi molto rivelatore dell’identità dell’autrice. Senza dubbio non era giovane negli anni Novanta, mi dissi. Quindi poteva essere anche Domenico Starnone con sua moglie Anita Raia a 4 mani. Nel libro infatti quegli anni ipnotici, confusi e pieni di speranze per la generazione più erudita dell’Occidente, sono raccontati in maniera sciatta. Senza convinzione né appigli, a differenza di quanto sia esatto il racconto metastorico dell’Amica Geniale.

Giovanna, la protagonista, è una adolescente degli anni Novanta. Vive al Vomero e non ha mai conosciuto la Napoli profonda, dove teatralità, camorra e vita si intrecciano.

E questa è una verità assoluta. Pure io che arrivai a Napoli nel 1998 alla Federico II conobbi vomerini che in tutta la loro giovane vita non avevano mai messo piede a Piazza Mercato (che per carità si può anche non conoscere, ma resta pur sempre la piazza in cui furono giustiziati i 200 rivoluzionari partenopei, tra cui anche l’immensa Eleonora Pimentel Fonseca).

Nel libro non si dice nulla del cambiamento culturale di quegli anni, di Bassolino, dei centri sociali, della temperie musicale, artistica, commerciale che avvolgeva i decumani e che riempiva luoghi come le vie nei pressi della Certosa di San Martino, dove ancora nel 2000, in una residenza dell’Opus dei, si potevano sentire le prove degli Almamegretta.

Forse solo la tensione cattolica viene recuperata di quegli anni, come se alla scrittrice qualcuno avesse raccontato cosa provavano la maggior parte dei giovani studenti di sinistra allora, col comunismo ormai morto, Prodi neutralizzato e la chiesa che cominciava a secolarizzarsi e a perire. E tutti i dogmi che insieme a tutti i dettami sul corpo e sessualità cadevano in un mare di lana etnica. Dall’infallibilità del Papa alla doppia natura di Cristo.

Chi ha letto il libro a Napoli ha addirittura riconosciuto le famiglie di cui si parla. Una storia forse vissuta negli anni settanta e trapiantata negli anni Novanta per renderla meno palese.

Ebbene, la serie Netflix rimedia all’ambientazione ricostruendo dettagliatamente quella stagione. Dalle calze nere a bande, tanto Spice Girls grunge, alla nostalgia per le bandiere rosse da poco dismesse.

Colonna sonora, costumi, scenografia, fotografia e ambientazioni sono la cosa migliore della trasposizione, laddove invece i personaggi si riducono un po’ a macchietta di se stessi. Anche la zia Vittoria, interpretata da una magnifica Valeria Golino, perde lo spessore popolare del libro, per avere solo una dimensione carnale, corporea, dal materno, mancato, ferino.

Buona la performance della debuttante Giordano Marengo, quella più in parte a mio parere. Non sfigura neppure Alessandro Preziosi, che restituisce una napoletanità ferita e intellettualmente ambiziosa, tipica della classe dirigente della ex capitale borbonica.

Da segnalare senza dubbio le location. La chiesa dove parla il filosofo cristiano Roberto Matese (un poco seducente per il ruolo, Giuseppe Buselli, che era stato già Enzo Scanno dell’Amica Geniale), è ambientata nella Casa del Portuale, nei pressi del Porto di Napoli, e icona architettonica dell’avanguardia napoletana realizzata dall’architetto Aldo Loris Rossi.

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