L’Attrazione Fatale per i remake (improbabili). Il genere thriller erotico conquista la serialità

by Claudio Botta

Il genere thriller erotico che ha dominato gli incassi al botteghino tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ’90, è oggetto di rilettura e riadattamento alla nostra epoca, declinato alla serialità e a canoni che cesure temporali come il MeToo impongono. Una sfida coraggiosa/rischiosissima o un tentativo – disperato o comodo, chissà – di sopperire a mancanza di idee e ispirazione? Sta facendo parecchio discutere l’ultimo prodotto sfornato dalla Paramount+: Fatal Attraction 2023, il reboot in otto episodi del celebre film del 1987 diretto da Adrian Lyne (regista dal quale non si riesce a prescindere, alla luce anche della nuova versione di Flashdance in arrivo sulle piattaforme) candidato a sei premi Oscar l’anno successivo, 320 milioni di dollari incassati in tutto il mondo (oltre 156 nei soli Stati Uniti) con un budget di appena 14 milioni, gli attori protagonisti celebrati come divi del firmamento hollywoodiano, feroci polemiche per la storia sconvolgente e le sue implicazioni: un’amante occasionale che dopo un week end di sesso sfrenato e tenera intimità non accetta di rientrare silenziosa nella sua quotidianità, lontano da lui diventato il suo unico riferimento, e inizia un’escalation di stalking sempre più cruenta e destabilizzante. Le accuse di sessismo scatenate in particolare dallo sbilanciamento dei due personaggi: il marito traditore, colpevole di una leggerezza senza mettere però in discussione il suo amore per la moglie e la loro bambina, e il ‘sacro’ vincolo familiare; l’altra donna che da professionista affermata e donna elegante e fascinosa si trasforma in una malata di mente, in bilico tra rabbia incontrollabile e depressione, tra desiderio di vendetta e voglia di attenzione, la solitudine e la violenza. Una dicotomia così efficace (e discutibile) da avere un impatto profondo anche sulla cultura dell’epoca, da terrorizzare almeno una generazione di mariti, messi in guardia così brutalmente dalle possibili e terribili implicazioni di un’avventura extraconiugale, e da determinare la nascita addirittura di un’etichetta, ‘bunny boiler’, per indicare una persona emotivamente instabile e pericolosa: il riferimento è ovviamente alla scena più inquietante del film, in cui il coniglio della figlia del protagonista viene ritrovato bollito in una pentola, i fornelli ancora accesi, e la situazione precipiterà a un punto di non ritorno, nessuna possibilità di comprensione e redenzione per lei.

Materiale di partenza esplosivo, insomma, e ancora attualissimo, al netto di mentalità e pregiudizi non più così marcati e definiti(vi). Ma è impossibile separare la storia dalle persone che l’hanno portata al successo così clamoroso sul grande schermo: il regista, meno preoccupato da inquadrature patinate e ambientazioni glamour (che comunque non mancano), e bravissimo nel seguire e alimentare la tensione crescente, prima di natura sessuale, poi di paura che diventa panico, non facendo rimpiangere un maestro del thriller come Brian De Palma, la prima scelta degli Studios che poi preferì farsi da parte per girare un altro cult, The Untouchables- Gli Intoccabili. Gli attori: Michael Douglas, già figlio d’arte, premio Oscar prima come produttore (Qualcuno volò sul nido del cuculo, per capirci) e poi come attore (nell’iconico ruolo del cinico broker Gordon Gekko in Wall Street di Oliver Stone), una nutrita serie di interpretazioni notevoli, ma che con il personaggio dell’avvocato Dan Gallagher (e poi del detective Nick Curran ‘Il giustiziere’ in Basic Instinct) si impone come sex symbol planetario, talmente immerso nella parte che anche la vita privata seguirà la stessa parabola: nel 1995 arriverà infatti il divorzio (dopo 18 anni di matrimonio) dalla prima moglie Diandra Luker, e l’ammissione di numerosi tradimenti per una dipendenza dal sesso. Glenn Close, straordinaria nel dare vita a tutte le molteplici sfumature della complessa parte di Alex Forrest, dalla intrigante sensualità al progressivo scivolare nell’abisso dell’autodistruzione, della follia, della frustrazione, delle aspettative disattese e malate. Ann Archer, la moglie tradita che rimane salda nei suoi riferimenti e nei suoi nervi, nonostante tutto intorno a lei stia crollando.

Tre pilastri che i protagonisti della serie, Joshua Jackson (che sarà per sempre il Pacey Witter di Dawson’s Creek, la serie teen adorata dagli adolescenti degli anni 90), Lizzy Caplan e Amanda Peet non riescono a far dimenticare. Funzionano magari singolarmente, perché attori/attrici comunque con un buon bagaglio di esperienza: tuttavia la chimica non scatta, anche e soprattutto nelle scene erotiche che sono la pallida copia di quelle del film, nonostante la riproduzione fedele nelle dinamiche e spesso nelle inquadrature, o negli sguardi mai davvero intensi. La cornice di riferimento è differente, la volontà dichiarata è quella di entrare maggiormente nella complessità di situazioni e personaggi, tuttavia pure uscendo dagli inevitabili confronti la tensione emotiva rimane sempre in superficie, e nessuno/a riesce a lasciare davvero il segno. Nonostante la firma di Alexandra Cunningham, scrittrice, showrunner e produttrice, e la dichiarata volontà di «radicale rivisitazione della trama classica. Matrimonio e infedeltà, così come i disturbi della personalità, sono i temi esplorati ma attraverso la lente contemporanea di donne forti che non hanno paura del giudizio maschile». Nonostante il tentativo di capire, lungo otto ore e non due, i disagi e i drammi che hanno portato al «Non sarò ignorata, Dan! (I am not going to be ignored, Dan!, nella versione originale)» della telefonata che cambia tutto, presente in entrambe le sceneggiature. Nonostante i due piani temporali che si sovrappongono, la differenza più marcata e riuscita tra le due produzioni.

Ne valeva davvero la pena?

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